Appassimento, così la Valpolicella getta le basi della candidatura all’Unesco

(di Elisabetta Tosi) Esiste in provincia di Verona una fase della produzione vinicola che ogni anno potrebbe dar lavoro a circa 8000 persone. E’ l’appassimento, il tradizionale metodo di lavorazione delle uve presente nelle nostre aree viticole fin dai tempi dei Romani. La Valpolicella in particolare ha acquisito nel tempo una fama a livello mondiale proprio grazie ai suoi vini da uve appassite, primo tra tutti l’Amarone. “Una tecnica che non é esclusiva di questa zona, ma che qui ha trovato uno sviluppo importante, che si traduce in 6 milioni di cassette di uva raccolta, 120 mila giornate di lavoro e 8 mila persone impegnate nella cernita e nella gestione delle uve” ha detto il presidente del Consorzio della Valpolicella, Christian Marchesini in apertura del convegno “La tecnica di appassimento della Valpolicella verso l’Unesco. Un patrimonio da condividere e salvaguardare”, tenutosi in questi giorni a villa Lebrecht (San Pietro in Cariano). 

“L’idea di candidare questa tecnica a patrimonio immateriale dell’UNESCO nasce nel lontano 2016 – ha continuato Marchesini – Sappiamo che il percorso è ancora lungo, ma siamo convinti che riusciremo a portarlo a termine”. Per quanto l’appassimento delle uve sia una pratica presente da secoli in altre regioni d’Italia e in alcuni Paesi mediterranei come Spagna e Francia, quello della Valpolicella presenta delle caratteristiche peculiari, ha spiegato il prof. Maurizio Ugliano, docente di Enologia nel dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Verona: “La tradizione di appassire le uve c’é a Jerez in Spagna, nella regione di Jura della Francia, e poi in Sicilia, a Pantelleria. Nel Nord la troviamo in Valtellina e qui in Valpolicella. I vini che si ottengono però sono completamente diversi; quelli della Valpolicella e della Valtellina sono vini rossi, secchi, mentre gli altri sono vini bianchi, dolci e d’ossidazione”. L’appassimento non è solo disidratazione degli acini e relativa concentrazione di sostanze, ha ricordato il docente e ricercatore: “Appassire in Valpolicella non è come fare uva passa. All’interno dell’acino durante l’appassimento continua una intensa attività metabolica che cambia radicalmente la composizione dell’uva. E’ vero, anche nella zona del Soave si appassiscono le uve per fare il Recioto. Ma appassire la Corvina non è la stessa cosa che appassire la Garganega, perchè anche l’ambiente esterno ha un forte impatto sul risultato finale”.

In Valpolicella insomma l’appassimento non è semplicemente un metodo di lavorazione delle uve nel quale i contadini, col tempo hanno imparato a primeggiare: è un pezzo imprescindibile di cultura in cui si riconoscono le comunità dell’area: “Spesso quando si parla di patrimonio si parte dal prodotto, ma se si parla di heritage, eredità, si parte dal saper-fare, dalla tecnica: è questo il vero valore” ha commentato Andrea Lonardi, vicepresidente del Consorzio della Valpolicella e direttore operativo di Bertani (del gruppo Angelini Wines & Estates). “Ciò che definisce l’heritage è l’artigianalità, sviluppata nel tempo per il bisogno di differenziarsi. Inizialmente le arele (i tradizionali graticci di canna su cui si mettono i grappoli ad appassire, ndr.) servivano per l’allevamento del baco da seta, un’economia che richiedeva un’ attenzione costante. In seguito, quella stessa cura dedicata ai bachi venne trasferita alle uve da appassire”. Fu così che i fruttai, da luoghi di allevamento dei bachi, si trasformarono anche in locali per l’appassimento;  “vivai” o “scuole” in cui si trasferiva di padre in figlio la conoscenza di questo metodo, al punto che ogni famiglia di contadini finiva per svilupparne una propria.

Fino a che punto l’appassimento appartenga all’identità collettiva della Valpolicella sarà oggetto della documentazione che i vari gruppi promotori della candidatura UNESCO – il  Consorzio di Tutela della Valpolicella, il Comitato Palio del Recioto di Negrar, La Strada del Vino della Valpolicella, la Fondazione ValpoliBella e lo SNODAR – si sono impegnati a raccogliere. Un lavoro che intende coinvolgere tutti i 19 Comuni della Denominazione e tutti i cittadini, perchè il processo per arrivare al riconoscimento UNESCO come “patrimonio immateriale dell’Umanità” è lungo e complesso: “Il tema é culturale – ha insistito il prof. Pierluigi Petrillo, direttore della cattedra Unesco sui Patrimoni culturali all’Università di Roma Unitelma Sapienza – L’UNESCO vuol capire se questa tecnica ha un effetto identitario sulla comunità”. Alla fine, ottenere questo riconoscimento non significa solo accendere i riflettori del mondo sulla Valpolicella, con tutti i risvolti anche economico-sociali che ne possono derivare in termini di ricadute sul turismo e il suo indotto. Significa soprattutto incoraggiare una presa di coscienza collettiva, una riflessione sul valore e l’attualità di una eredità che ci arriva dal passato più lontano, e sulla quale a distanza di un paio di millenni continua a ruotare gran parte dell’economia vitivinicola veronese, e non solo.

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