Meno pressioni e più sostenibilità: l’urbanistica post-Covid non dovrà più essere contrattata

Con questo articolo inizia la sua collaborazione a L’Adige di Verona l’architetto e urbanista, Giorgio Massigna.

Da qualche tempo le nostre  Pubbliche Amministrazioni hanno adottato un sistema di pianificare il territorio che definisco urbanistica contrattata, il contrario della partecipata. Da sempre, le scelte sull’uso del territorio non venivano definite da canoni puramente tecnico-scientifici, ma rappresentavano il prodotto tra il fattore economico o degli affari, con quello politico-amministrativo. Ricordo come, nel passato, diverse varianti parziali al Piano Regolatore abbiano mutato gli  indici di edificazione o addirittura le destinazioni d’uso, in relazione alla forza economico-politica del  proprietario che ne faceva richiesta. Ma non era mai successo che fossero addirittura gli operatori privati che decidevano le scelte d’uso del territorio, estromettendo la Pubblica Amministrazione da un suo diritto-dovere.

Questo metodo di fare urbanistica fu influenzato dalla graduale diminuzione dei trasferimenti dallo Stato agli Enti locali, che provocò una grave  mancanza di liquidità ai Comuni. La forte restrizione dei trasferimenti fu permessa grazie al Testo Unico per l’edilizia (D.P.R. 380/2001, art. 136 c.2, lettera c), firmato dal ministro Franco Bassanini. In quel testo, per ammortizzare i minori trasferimenti, veniva abrogata la legge Bucalossi, che obbligava l’utilizzo delle entrate dagli oneri di urbanizzazione solo per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, principio assolutamente comprensibile.

In realtà, anche se l’intento era quello di dare maggiore autonomia ai Comuni, di fatto, ha dato la stura a troppe deroghe ai Piani Regolatori, a nuove espansioni edilizie e ad autorizzazioni di eccessive colate di cemento, senza preoccuparsi delle conseguenze sul territorio. 
Da quel momento, la pianificazione pubblica iniziò a perdere di vista il suo vero scopo, quello di equilibrare e regolamentare l’uso del territorio, per seguire l’obiettivo di recuperare denaro. 
Gli oneri di urbanizzazione persero la loro specificità, per assumere la forma di una qualunque tassa, ammenda o tributo, da utilizzare, entro il 75 %, per la spesa corrente. Si possono spiegare anche così le logiche che hanno spinto le due amministrazioni Tosi a pianificare il territorio sulla base delle richieste degli operatori privati, in cambio di oneri e di opere di infrastrutture ipoteticamente utili per la città.

Così come si spiegano le recenti scelte dell’amministrazione Sboarina, in particolare: per il supermercato in via San Rocco a Cà di Cozzi; per l’ex SAFEM; e per qualche area da ristrutturare ed ampliare. Sulle altre lottizzazioni come l’ex BAM in via Mameli; i Tigli a Montorio; l’ex Cardi al Chievo, quella di San Rocchetto a Quinzano e altre aree di riqualificazione urbanistica, le responsabilità sono della precedente giunta.

Ma, appurato che la mancanza di liquidità ha invitato le Pubbliche Amministrazioni a fare cassa con gli oneri di urbanizzazione e con le opere compensative, è lecito chiedersi se questo modo di pianificare sia positivo per la città o se invece causerà effetti che, in futuro, pagheremo tutti, a prezzo non solo di calo della qualità della vita e della salute, ma anche come costi economici per aggiustare i danni prodotti da una pianificazione irrazionale e finalizzata solo a realizzare guadagni. Una pianificazione, che ha distribuito sul territorio troppi poli commerciali e direzionali, senza aver prima redatto un lungimirante progetto di sviluppo dell’economia locale, non può essere positiva per la nostra città. Prima andrebbero definiti i settori produttivi più innovativi e tecnologicamente avanzati, e solo dopo pianificato l’uso del territorio e individuate le aree di sviluppo.

Che senso ha consentire la realizzazione di poli commerciali, attrattori di traffico, e poi, per compensazione, richiedere le rotonde, o altre piccole infrastrutture viabilistiche, per smaltire l’eccesso di traffico causato dagli utenti dei poli stessi?

Lo stesso Centro Storico, sta vivendo un periodo in cui, per la mancata pianificazione sull’uso degli edifici storici e per il proliferare di strutture ricettive e commerciali, rischia di perdere la sua funzione principale, quella residenziale.  Per rivitalizzarlo, sarebbe necessario  che fosse ripopolato da coppie giovani con bambini, che farebbero tornare gli artigiani ed i negozi di vicinato, come tutte le altre funzioni e strutture che vivono vicino alle residenze.

Mi chiedo perché, anziché destinare alle cooperative, lotti di terreno agricolo per la costruzione di abitazioni, con spreco di suolo, non si utilizzino, per quelle funzioni, le caserme dismesse. Mi si risponderà che non ci sono soldi per acquistarle. E’ vero che il Comune non ha denari in cassa, ma ritengo che esistano le possibilità per trovarli. Verona è una città patrimonio mondiale UNESCO, è ricca di esempi di architettura militare ora dismessi, credo che presentare un programma di riqualificazione del centro storico, con l’obiettivo di aumentare il numero degli abitanti e di qualificare le strutture storico-monumentali, possa essere bene accolto dall’Unione Europea. Non dimentichiamo che Verona ha, forse, il più importante e vasto patrimonio architettonico austriaco, al di fuori delle zone dell’ Austria e dell’Ungheria.

Se la pianificazione sarà ancora ostaggio degli interessi economici, e da questi pilotata, tra non molto l’intero nostro territorio diventerà invivibile. (di Giorgio Massignan, VeronaPolis)

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