(di Gianni Schicchi) Un denso programma, quello proposto dalla Fondazione Arena nel terzultimo concerto stagionale, al Filarmonico che ha come primo obiettivo ricordare i 150 anni dalla nascita di Maurice Ravel.

Fra i suoi capolavori, dunque e prima di tutto, l’esecuzione del poema coreografico La Valse, quindi del celebre Bolero, unito ad un ripristino della grande Cantata Alexander Nevskijdi Prokofiev, tanto lontana dalla sua prima esecuzione in Arena dell’agosto 1972.
A dirigere il tutto chiama poi un direttore di riferimento per la musica del Novecento, come il maestro Marco Angius, bacchetta molto stimata dalle nostre parti per il suo lungo impegno alla guida dell’Orchestra di Padova e del Veneto.
Quasi nessuna delle otto idee riversate nel breve pezzo de La Valse ha un carattere tematico ben definito; si tratta piuttosto dell’idea stessa del valzer ridotta ai minimi termini e sottoposta ad un inebriante processo di ingigantimento, come per altri versi avviene nel Bolero. Siamo quindi lontani dall’affettuoso sguardo nostalgico che è l’elemento germinale dei valzer straussiani del Rosenkavalier.
I frammenti di Ravel hanno una caratteristica di ripetitività che dimostrano quasi la volontà di sottolineare il lato grottesco e caricaturale della danza e di annullare qualsiasi coinvolgimento affettivo, in un quadro ricco di sgargianti sonorità.
Ravel è musicista di espressioni nebulosamente contrastanti, ma pure di fiamme e luminosi squarci, di figure che prendono forma distinta nei contorni sfumati o indefiniti, come un superbo Turner. Un autentico banco di prova per saggiare la fantasia, le risorse tecniche ed evocative dell’orchestra, di fronte al quale Angius supera poi l’esame a pieni voti.
Ravel progetta quindi il suo Bolero, definendolo “un pezzo della durata di diciassette minuti, consistente per intero di un materiale orchestrale senza musica e con un lungo crescendo molto progressivo”; un brano praticamente senza contrasti e con nulla di creativo, ad eccezione del progetto e del modo di esecuzione, dove i temi sono tutto sommato impersonali, con melodie popolari di genere arabo-spagnole.
Sulla inflessibilità del suo ritmo – doveva portare addirittura ad una reazione di noia da parte dell’ascoltatore attraverso le sue nove ripetizioni del tema bipartito – e sulla presunta mancanza di creatività, l’autore insiste moltissimo, probabilmente in base ad un atteggiamento controcorrente che rifugge dall’eccessiva volgarizzazione di questa musica. Sta di fatto che questa sua visione estremamente oggettiva andò persino contro l’interpretazione di qualche celebre direttore (Toscanini), aspramente poi redarguito per aver accelerato il ritmo verso la parte conclusiva dell’esecuzione.
Angius stacca invece un Bolero con un tempo scorrevole, ma non rapidissimo: in sintesi una bella esecuzione, certo non stregonesca e ammaliatrice (come fu quella del mago George Pretre), ma comunque rivelatrice della genialità novecentesca di quel perfetto meccanismo d’orologeria musicale che è il brano.
Il terzo titolo della serata (importantissimo titolo anche cinematografico) era la Cantata Aleksander Nevskij di Prokofiev, un pezzo che oggi vive autonomamente nelle sale da concerto, richiedendo grande impegno a voci e strumenti.
Fra tensioni e solennità, il fulcro drammatico è il pianto sui caduti, dolorosa riflessione senza tempo sulla violenza della guerra, affidata al canto solistico. Nel sesto episodio, “Il campo di battaglia”, dedicato al canto di una fanciulla che cerca i propri morti, è una superba solista il celebre mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili,cantante sempre disponibile alle chiamate da Verona e voce di grande spessore, dalla particolare brunitura nelle zone basse del registro, drammaticamente intensa e convincente.
Il Coro areniano è veramente all’altezza del compito, compatto e incisivo nel fascinoso labirinto polifonico ideato da Prokofiev, in cui è ben visibile la saggia e minuziosa preparazione di Roberto Gabbiani.
La direzione di Marco Angius è di grande autorità, attentissima alla scorrevolezza dell’insieme, non disgiunta da una impostazione equilibratissima, unita ad una cura dei particolari in grado di valorizzare la densità e la profondità dell’ispirazione del compositore russo.
Cosa dire poi ancora dei tanti giovani strumentisti che stanno elevando il tasso qualitativo della nostra orchestra? Sul piano della resa tecnica è davvero difficile competere con tanta accuratezza di particolari, con un simile controllo del ventaglio dinamico e con tale inebriante bellezza timbrica (in evidenza l’intero comparto di fiati e percussioni che Angius ha ripetutamente indicato all’applauso del pubblico), particolarmente poi nella trasparenza degli impasti fra coro ed orchestra.
Ancora una prestazione maiuscola, di un complesso in pieno stato di grazia, lungamente applaudito da un foltissima e soddisfatta schiera di pubblico.