Quella vittoria sanguinosa, combattuta da francesi e piemontesi casa per casa nelle strade di Magenta, a colpi di baionetta e con il calcio dei fucili. Quella fu il preludio dello scontro di Solferino e di San Martino, del 24 giugno 1859.

(Emanuele Torreggiani). “Chissà la sua mamma, quando glielo dicono, che disperazione! Ecco quello che siamo capaci di fare! E la mia mamma mi lasciò una sberla secca sulla guancia a me che me ne stavo lì a stoccafisso col moccio gocciolante i lacrimoni e tremavo tutta. Vai a prendere una pezza che almeno gli copriamo la faccia, va’ com’era bello. Bello bello. Madonna Signore…Un angioletto.

Che il Signore guardi giù… Ecco cosa siamo capaci di fare. Come siamo bravi”.

Il 4 giugno del 1965 era un venerdì. Chi scrive aveva sette anni. Stava concludendo la seconda elementare. E quel giorno tutte le scolaresche, inquadrate e coperte, partecipavano alle celebrazioni della Battaglia, avvenuta il 4 giugno 1859. Dalla scuola elementare Giuseppe Mazzini lungo la via omonima della battaglia, poi a sinistra per la Luigi Brocca che costeggia la strada ferrata Milano Torino sino all’Ossario.

4 giugno 1859. Lo schiaffo della Battaglia di Magenta
L’Ossario di Magenta

Apriva il corteo il Prevosto, che avrebbe tenuto la Santa Messa sul campo, seguiva il Sindaco, il Console Francese, autorità militari in rappresentanza, i reduci delle Prima Guerra, quella Grande, tutte le scolaresche, i maschietti in casacca blu e le femmine in grembiule bianco, le maestre che avevano distribuito ad ogni alunno una bandierina italiana o francese, ancora di stoffa a seta, che poi si sarebbe riconsegnata per l’anno successivo, i vigili urbani in alta uniforme a fianco del Gonfalone gli indimenticabili, per chi scrive, Amadio e Castiglioni, alti e impettiti e severissimi, che sembravano giganti, ma buoni, buoni come il pane. Quel pane di cui scrive, a chiusura del suo sommo romanzo, “Vita e Destino”, Vasilij Grossman; se qualcuno è colto da curiosità lo legga non avrà a pentirsene. Ma sia.

Dunque, era un venerdì quel 4 giugno e avevo sette anni. Finita la messa parlava il sindaco, il console francese, poi in parata la Fanfara dei Bersaglieri mentre il popolo, schierato ai lati lungo la via, faceva ala in un tripudio di applausi, evviva e bandierine sventolanti. Al mezzodì si rientrava in aula, eccitatissimi dalle trombe che ci rimbombavano in testa e quindi nel cuore, per la riconsegna delle bandierine e si andava a casa. Le autorità e le rappresentanze militari e civili si recavano, per il pranzo, all’Albergo Due Muri.


La GUardia Imperiale sfonda sul ponte di Magenta

Quella sera, rammemoro che era di quel caldo grigio, afoso preludio di un temporale imminente, mio padre, che avevo intravisto sul palco impavesato in rappresentanza della Snia Viscosa, anche le grandi industrie cittadine: Pastificio Castiglioni, Saffa, Laminati Plastici, Plodari, partecipavano con una delegazione, mi pagò un gelato. Mi prese per mano, una sua falcata m’imponeva due passi e un quarto, quindi trottai sino alla casa Giacobbe, teatro di quel IV Giugno, che qui scrivo in numero romano che sigilla la Storia, e ci recammo in una latteria dirimpetto. Oggi, da decenni ormai, quel falansterio con annesso stalle è stato demolito e sorge una palazzina ad elle con porticato. Ed in quella latteria, dove da una Carpigiani arrotavano un gelato al latte nella forma di spavalda fiamma, la lattaia, ormai nonna ottuagenaria, disse a mio padre di quel giorno, “limpido come la gloria e freddo come la morte” per parafrasare Victor Hugo, esattamente come le aveva narrato la sua di mamma che allora era proprio lei quella bimba tremante di paura col moccio pencolante. Ed indicò il gradino di pietra grigia, proprio sull’uscio. Era qui, mi diceva la mia mamma che ogni volta si segnava a Croce. Un ragazzo, la testa fracassata, biondo con gli occhi azzurri color del cielo, bianco nella divisa austriaca rappresa nel sangue.

Mio padre mi prese il cono gelato e mi lasciò uno schiaffo. Così non ti dimentichi. 

Venerdì, IV Giugno 1965. Trent’anni dopo, trent’anni, investito dell’incarico di vicesindaco pro tempore della Magenta, in prossimità della ricorrenza, andai all’Ossario sul camioncino degli operai comunali lì per un rimessaggio in economia del sito. Il Magistrelli, l’articolo esplicito lombardismo, capo operaio, altro gigante buono, governava i lavori lavorando. Me ne stavo lì a guardarmi in giro nell’abito grigio scuro d’ordinanza, per dire. Nani, non sei mai andato giù? Ora il “nani” è un altro lombardismo affettuoso. Un vezzeggiativo molto comune nella lingua madre. Che non significa piccolino, le nostre taglie si equiparavano, ma semplicemente quell’espressione che esprime l’affetto indifferente all’età del tempo. Scossi il capo. Allora butta via il mozzicone e vieni giù. E scendemmo nella cripta. Mi accolse l’odore di aria ferma che sembra acqua stagnante di fiori recisi. Ed erano tutti lì. Sono lì. Saranno lì anche quando noi tutti saremo morti, sino a quel tempo che farà insistere l’ossario ove ora si erge.

Carta Battaglia di Magenta

Crani politi, nel candore mistico della neve, impilati gli uni sugli altri. Il Magistrelli recitò un Requiem. Siamo qui tutti. Mi ritornò la eco dello schiaffo alla guancia di mio padre, del suo volto improvvisamente incupito, forse stava rivedendo squarci dalla battaglia di Cassino. Uno schiaffo paterno a riflesso di quell’altro schiaffo materno. Uno schiaffo di considerazione. Considera quel volto angelico di quel ragazzo di cui alcuno ha memoria, salvo il pianto certo della sua mamma, considera che è stato bello e ben fatto al pari di te. Rientrando ci fermammo a prendere un Campari Bitter all’Antony Bar, proprio dove, in quel tempo lontano la lattaia era stata bimba testimone del massacro. Indossavo la giacca tramata di ragnatele bianche. Il Pino, il primo barman della città, con la cura che corrispondeva ai suoi ospiti, me la spazzolò. Una filigrana di memoria, pensai allora come ora, trent’anni dopo. E cosa rimane di quel giorno? IV Giugno 1859… semplicemente l’Italia.