(Francesca Prina Ricotti*) Il 21 luglio 1970 è una data che nella memoria collettiva nazionale è passata quasi sotto silenzio. Ma per migliaia di famiglie italiane quella data rappresenta una ferita, un’ingiustizia che, a distanza di 55 anni, brucia ancora.

Quel giorno, Moammar Gheddafi dispose la confisca totale di tutti i beni degli italiani residenti in Libia: case, attività economiche, terreni agricoli, conti bancari, ecc.. Non ci fu tempo per comprendere, per organizzarsi, per difendersi. Il tempo di un annuncio, e tutto ciò che era stato costruito in una vita ci fu tolto. Quell’atto segnò l’inizio di un esodo forzato che, nel giro di pochi mesi, si concluse con l’espulsione definitiva dell’intera collettività italiana dalla Libia, completata nell’ottobre dello stesso anno. Molti di noi furono costretti a lasciare quel Paese con poche valigie e una manciata di ricordi nascosti nei vestiti, nei documenti, nelle fotografie salvate in fretta.

Eravamo circa ventimila: italiani nati in Libia o arrivati lì da giovani, con valigie cariche di speranze e mani pronte a costruire. Abbiamo vissuto in quella terra con rispetto e impegno, integrandoci, lavorando duramente, contribuendo alla crescita di un Paese che sentivamo come casa. Tripoli, Bengasi, Homs, Misurata: non erano solo nomi sulla mappa, erano le nostre città. Le strade portavano i nostri passi, i campi portavano il nostro lavoro, le case risuonavano delle nostre voci, delle nostre risate, dei nostri dolori.

E quando tornammo in Italia – un’Italia che chiamavamo madrepatria – scoprimmo con amara sorpresa di non essere attesi. Anzi, fummo accolti con freddezza, talvolta con diffidenza, più spesso con indifferenza. Nessuna strategia concreta per il reinserimento. Nessun riconoscimento. Eravamo diventati “rimpatriati”, “profughi”, come se il nostro legame con l’Italia fosse solo burocratico, e non affettivo e identitario.

Lo Stato italiano, all’epoca, fece promesse e parlò di aiuti, di rimborsi, di attenzione. Ma la verità è che non ha mai dato piena attuazione a quanto dovuto. Le nostre perdite non sono mai state risarcite in modo equo e giusto. Molti di noi – soprattutto i più anziani – sono morti senza mai ricevere giustizia, senza mai vedere riconosciuto il valore di una vita di lavoro e sacrificio spesa all’estero con onore, in nome anche dell’Italia.

Non abbiamo mai chiesto privilegi, ma solo che venissero rispettati i nostri diritti. Quei diritti che lo Stato avrebbe dovuto garantire ai propri cittadini colpiti da una misura di confisca ed espulsione collettiva, solo per il fatto di essere italiani. Invece, siamo rimasti invisibili e siamo stati protagonisti di un evento dimenticato che non ha trovato spazio nella narrazione storica del Paese.

Eppure, nonostante gli eventi, non portiamo rancore verso il popolo libico. La nostra rabbia non è mai stata diretta a quel Paese e la nostra nostalgia non si è mai trasformata in rivendicazione cieca. In Libia abbiamo avuto vicini di casa che ci hanno voluto bene, amici che ci hanno sostenuto nei momenti difficili, lavoratori con cui abbiamo condiviso pane e fatica. E con tanti di loro ancora oggi abbiamo un rapporto di amicizia che ci lega, insieme alla speranza condivisa per un futuro migliore per la Libia.

gheddafi
Gheddafi

Oggi, nel ricordare il 21 luglio 1970, non si commemora solo una perdita, ma vogliamo ancora rivendicare un diritto fondamentale: il diritto alla memoria, alla verità storica e alla giustizia. La memoria non è solo un dovere verso chi ha vissuto quella confisca sulla propria pelle, ma un patrimonio collettivo da proteggere e trasmettere. Da una parte, l’AIRL, da decenni, si impegna affinché questa pagina dolorosa della storia italiana non venga dimenticata né rimossa, promuovendo iniziative culturali, testimonianze, ricerche, incontri pubblici. Dall’altra parte, ancora si attende la chiusura definitiva del nostro contenzioso. La questione degli indennizzi è rimasta aperta troppo a lungo: dopo oltre cinquantacinque anni, è tempo di porre fine a questa ingiustizia protratta. Ci aspettiamo che le istituzioni agiscano con responsabilità e coraggio, per dare finalmente una risposta certa, dignitosa e definitiva a chi ha perso tutto ed è stato, per troppo tempo, dimenticato.

Per concludere, noi italiani di Libia abbiamo perso tutto ma non la nostra identità e, per questo, continueremo a tenere viva la memoria, a trasmetterla con orgoglio e verità, perché nessuna storia italiana merita di essere cancellata. Alle generazioni future vogliamo lasciare un’eredità che vada oltre il dolore: vogliamo consegnare loro la consapevolezza di appartenere a una comunità che non ha mai smesso di credere nella dignità del proprio passato: che ha saputo rialzarsi, reinventarsi, contribuire ancora una volta alla società italiana, nonostante discriminazioni e difficoltà.

*Presidente dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia