(di Gianni Schicchi) Il quinto appuntamento de Il Settembre dell’Accademia proponeva il ritorno a Verona della famosa Dresdner Philharmonie, che con la consorella Sächsische Staatskapelle Dresden, è una delle due più intraprendenti compagini orchestrali tedesche. A dividerne le sorti al Filarmonico, due musicisti emergenti nel panorama internazionale, i russi Boris Giltburg, solista al pianoforte e Dima Slobodeniuok, alla direzione. Il programma su cui dovevano misurarsi era dei più scontati, come il Concerto n° 20 in re minore K 466 di Mozart e la Seconda Sinfonia in re maggiore op. 43 di Sibelius.

Il primo brano fu amatissimo da Beethoven – vi compose le cadenze lasciate in bianco da Mozart – ed ebbe grande fortuna per tutto l’Ottocento come simbolo di un Mozart precursore del romanticismo in musica, dove egli opta per un marcato dualismo fra il pianoforte e l’orchestra fino a investire di significati drammatici la stessa struttura formale. Ma questo carattere cede poi, nella Romanza del secondo movimento, a una cantabilità di estrema carica espressiva, mentre la parte centrale attraversa ancora uno sviluppo drammatico – anche qui il gioco di equilibri tra pianoforte e orchestra è stupendo – per rasserenarsi al termine con la ripresa del tema iniziale.

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Il Mozart di Giltburg (importanti i suoi piazzamenti ai Concorsi internazionali di Santander, Rubinstein, Regina Elisabetta) è ricco di raffinati preziosismi roccocò in un colore timbrico trasparente fino all’inverosimile, nel tocco sostanzioso a volte sottile e come si avverte bene nel movimento conclusivo, nella leggerezza scattante dei passaggi brillanti. Anche il dramma del primo movimento viene accennato più che rappresentato, visto che il pianista russo (naturalizzato israeliano) resta emotivamente controllato, tutto teso a rendere i dettagli del suono, levigando con cura ogni singola nota. È un approccio forse un po’ retrò alla musica di Mozart, certo non privo di un certo fascino, per quanto a queste interpretazioni venga a mancare a volte il respiro del fraseggio. Succede lo stesso nella Romanza, anche se la pulizia del suono e la trasparenza timbrica, da parte del solista come dell’orchestra, sono in entrambi i casi apprezzabili. Nel terzo movimento, felice invece la citazione operistica (Don Giovanni) nella cadenza principale, dove aleggia la musica e lo spirito del Commendatore. 

Moltissime le chiamate in proscenio per lui, ripagate con due bis (Prokofiev e Rachmaninov) che hanno testimoniato il suo ideale terreno interpretativo. Il secondo brano, di Sibelius, è tra i più conosciuti e amati del compositore finlandese, dove i motivi evolvono l’uno nell’altro in maniera quasi spontanea.

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Una pagina delle più ricche di sentimento e di atmosfere suggestive, nobile ed espressiva soprattutto nei primi tre tempi, mentre nel Finale il principio sinfonico viene rispettato nel senso della costruzione di episodi drammatici e contrastanti, densi di un pathos genuino e comunicativo. La lettura di Boris Slobodeniuok (naturalizzato finlandese, chissà se anche lui un ennesimo frutto della grande scuola di Jorma Panuula) si rivela esemplare nel coglierne le atmosfere, le sottili ambiguità, le vaghe allusioni, le improvvise, misteriose inquietudini, che oscurano a tratti il luminoso panorama della Sinfonia. Asciutto, flessibile, con una minuziosa attenzione ai particolari, fin dal levigato gioco degli archi nelle prime battute, il direttore finlandese ha la capacità di immergerci nel mondo stratificato e brulicante di questa singolare sinfonia, che riceve una esecuzione di notevole chiarezza e tensione, grazie anche alla pregevole prestazione della Dresdner, complesso dalle notevoli individualità fra i fiati e nel reparto archi dove è consistente la presenza femminile.

Così i buoni tre quarti d’ora che occupa il pezzo sono scivolati via in un rincorrersi di temi, riflessioni, scintillio di ottoni e sommessi echi di fiati, sorretti da archi caldi e carichi di quel singolare condurre le frasi proprio ed unico stile di Sibelius (purtroppo così poco frequentato da noi), tanto da rimanere stupiti di fronte alla ricercata introspezione che tale sinfonia comporta e da quanto l’insieme, tra entusiasmo degli interpreti e altezza compositiva, faccia bene all’ascoltatore, trasportandolo in quel labirinto di suggestioni, cui Sibelius conduce nella sua ricerca compositiva.

Il direttore ha estratto il meglio possibile dalla Dresdner, inserendosi nel filone interpretativo mitteleuropeo fra cui si contano i massimi direttori di Sibelius e dai quali non si è discostato nel lasciare cantare l’ottima orchestra, chiudendo le frasi e portando sempre avanti il suono con un esito che il trionfale scrosciare degli applausi in sala ha semplicemente sancito con vigore e gioia. Finale con un bis: il tenue Valse triste di Sibelius.