(di Gianni Schicchi) Otto anni fa avemmo l’occasione di sentire suonare per la prima volta Beatrice Rana: veniva da importanti traguardi conseguiti in diversi concorsi internazionali. Ora la pianista salentina ha acquisito una maturità d’interprete che le ha permesso di vincere “tabù personali come le Sonate di Beethoven” e di trovare un equilibrio professionale che non manca di dare spessore e qualità al suo pianismo. 

Beatrice Rana ha impreziosito l’ultimo appuntamento de Il Settembre dell’Accademia presentandosi al fianco della Deutsche Kammerphilharmonie di Brema per eseguire il Terzo Concerto di Beethoven diretto da Riccardo Minasi. Come ne è uscita da questa prova in cui Beethoven afferma per la prima volta e in modo evidente la propria concezione sinfonica del concerto solistico?

Per un interprete che non trascuri di prestare la dovuta attenzione alle coordinate sociali ed estetiche che costituiscono lo sfondo imprescindibile del prendere forma di ogni opera d’arte (non solo musicale), ridare voce al Beethoven da pochi anni lanciato all’assalto di Vienna, significa tentare di rievocarne l’empito di energia, di entusiasmo e di narcisismo. 

PHOTO 2025 10 02 11 48 38

Uscita quindi dal Filarmonico certamente nel migliore dei modi, sfruttando con eleganza mista anche ad una certa astuzia, tutte le “debolezze” elocutive di una tavolozza di suoni che solo il pianoforte della piena maturità ottocentesca riuscirà poi a superare. Beatrice Rana ha mostrato di essere un’erede ormai indiscussa dei grandi interpreti del pianismo italiano, dei vari Arturo Benedetti Michelangeli, Maurizio Pollini, per citarne i più famosi, ed oggi fra i migliori esegeti al mondo dello stile beethoveniano. La limpidezza del suono, la precisione tecnica, la commossa sensibilità, sempre contenuta nell’ambito di una lucida intelligenza, sono state le qualità essenziali della sua esecuzione.

Ammirevoli il suo fraseggio arioso, la flessibilità ritmica e la finezza timbrica, come eloquenti la dinamica e l’agogica. Il suono è stato poi esibito con un notevole controllo, che le ha concesso di passare agevolmente dal pianissimo al fortissimo. Calibrati i trilli, gli abbellimenti, smagliante la grinta virtuosistica di alcuni passaggi, ma all’occorrenza provvista di sfumature preziose e di una purezza espressiva che tocca vertici molto alti, come nell’Adagio. Semplicemente smagliante poi la lunga cadenza del primo movimento. I consensi del pubblico in sala sono stati prolungati ed intesi ripagati con due bis. 

Per quanto concerne invece la seconda parte del concerto che prevedeva l’esecuzione della Quarta Sinfonia di Brahms, non era nuova l’idea di proporla con un’orchestra di una cinquantina di elementi, come ci hanno provato molti altri celebri direttori, da Macherras, a Dausgaard, a Järvi (proprio a Brema) e analogamente a questa del Filarmonico realizzata con complessi di strumenti moderni, ma ispirandosi alle esecuzioni storicamente informate, fin dalla parsimonia del vibrato negli archi. 

PHOTO 2025 10 02 11 48 38 2

Ricardo Minasi (dalla carriera in forte ascesa) ha inteso svincolare il sinfonismo di Brahms dall’immagine consolidata e dall’austera compostezza formale riconducibile ai modelli classici, come dalla malinconica patina autunnale che lo lega al crepuscolo romantico. Di qui un Brahms diretto e impulsivo, contrastato e drammaticissimo, dominato da una inarrestabile pulsione ritmica che è affiorata persino sotto la spaziatura lirica dei movimenti lenti.

L’urgenza incalzante del ritmo si è accompagnata però ad una elasticità di fraseggio che ha portato il direttore ad allungare un paio di pause, ad accelerare vorticosamente alcuni passaggi e talvolta perfino a sconvolgere la quadratura di qualche tema. Un taglio interpretativo che ci è parso lontano dalla tradizione e in realtà le sorprese si sono susseguite in questa esecuzione frastagliata e nervosa in cui bisogna mettere in conto anche la prova superlativa dell’Orchestra di Brema, riuscita a conciliare l’accuratezza dei dettagli e la spiccata caratterizzazione espressiva di ogni variazione per una partitura conosciuta a menadito, visto il suo “Progetto Brahms” praticato da dieci anni.   

Di rilievo l’ideale affiatamento tra direttore e orchestra, come l’esecuzione dell’Andante moderato basato sul ritorno di un tema, dove tra un ritorno e l’altro sono collocate le idee musicali più diverse, con un gioco di accordi staccati degli strumentini, un’accorata melodia di corale, dove il concitato dialogo tra archi e fiati è stato condotto con un grado di estrema preziosità. Grande successo della serata con un bis che ha coronato una prestazione di assoluto rilievo, apertasi con la travolgente Ouverture da Il Franco cacciatore di von Weber. (Gianni Schicchi)