(Angelo Paratico) L’assalto, guidato da Emanuele Filiberto allo Stato italiano per riavere i gioielli della corona si va facendo sempre più pressante. Alcuni risalgono all’epoca del Regno d’Italia e altri sono precedenti, tutti antichi cimeli di Casa Savoia, la più antica dinastia un tempo regnante in Europa.

La scatola a 3 ripiani in pelle di colore nero, con una fodera di velluto azzurro si trovava posta nella cassaforte n.3 del Palazzo del Quirinale. Ma il 6 settembre 1943 Vittorio Emanuele III che stava per fuggire dalla capitale ordinò: «Bisogna che questi gioielli siano messi al sicuro!». E così finirono alla Banca d’Italia in un caveau di sicurezza, ma non per molto. In poco tempo la situazione precipitò, l’Italia è nelle mani dei tedeschi e per evitare che li rubino vengono spostati. Un ufficiale tedesco mostrò alla ragioneria del Ministero un ordine scritto di Hitler che intima loro di consegnare del tesoro.

Ma la risposta fu: “Il re fuggendo ha portato tutto con sé”. E infatti quando ispezionarono la cassaforte n. 3 la trovarono vuota. In realtà i gioielli erano stati portati in un nascondiglio segreto: nel cunicolo del Cinquecento che collega il Quirinale a Palazzo Barberini. Lì era stata scavata una nicchia nel muro e lì era stato riposto il tesoro.

Dopo il referendum che sancì la vittoria della repubblica sulla monarchia, il 3 giugno del 1946, Umberto II di Savoia, il re di maggio, recuperati i gioielli li fece depositare dal ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, a Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia. Forse pensava di rientrare in Italia e poterseli riprendere ma mai più rientrò, neppure per un’ultima visita d’addio a Roma, per volontà di Pertini che non gli esaudì quest’ultimo desiderio.

I gioielli non sono stati né confiscati né consegnati. Sono in un limbo

I gioielli restarono inaccessibili agli eredi ma neppure furono confiscati dallo Stato italiano, restano in una sorta di limbo. Il penultimo tentativo di riaverli risale a tre anni fa quando c’era ancora in vita Vittorio Emanuele IV che intentò una causa alla Banca d’Italia, alla presidenza del consiglio e al ministero dell’Economia per riaverli ma senza riuscirvi.

margherita di savoia

«Non capisco perché i gioielli non si possano vedere. Non se ne comprende la ragione. Perché né noi Savoia né gli italiani possono ammirarli? Sono parte della storia della mia famiglia», sbottò Maria Gabriella di Savoia, alcuni anni fa, quando la terza figlia dell’ultimo re d’Italia voleva compilare un loro catalogo. I discendenti dell’ex casa reale, dopo anni di liti familiari, forse a corto di soldi, hanno fatto fronte comune per chiedere allo Stato italiano la restituzione di 6.732 brillanti e 2 mila perle, il tutto montato su bracciali, collier, diademi e spille.

Nella tredicesima disposizione in appendice alla Costituzione, fu indicato che i beni della Casa Savoia fossero avocati allo Stato repubblicano. Ma i gioielli si possono considerare diversi dai Palazzi e dalle collezioni già confiscate? Quando Umberto II li consegnò alla Banca d’Italia scrisse una lettera di accompagnamento poco chiara: “In conseguenza degli ultimi avvenimenti desidero che le Gioie della Corona non vadano immediatamente in mano ad un commissario che potrebbe prendere dei provvedimenti affrettati e magari fare una distribuzione e un’assegnazione non conforme al valore storico.

Sono gioie portate dalle regine e dalle principesse di Casa Savoia. Desidero siano depositate presso la Banca d’Italia per essere consegnate poi a chi di diritto». A parte l’invalidità legale di questo atto, lo stesso Presidente Luigi Einaudi, un monarchico, lasciò una porta aperta scrivendo che “potrebbe ritenersi che le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia reale”.

Ai Savoia risposero di no la Banca d’Italia, con Carlo Azeglio Ciampi, divenuto poi anch’egli Capo dello Stato, e Mario Draghi. Peraltro, il tesoro fu fatto valutare da due gioiellieri famosi, Gianni Bulgari e Roberto Vespasiani, e tale responso tecnico svalutò i gioielli per la loro foggia antiquata; ma il valore storico, antiquario e simbolico resta intatto. L’arco su cui sembrano attestarsi le valutazioni è molto largo: dai 30 ai 300milioni di euro.

Nozze Umberto II di Savoia e Maria Jose 1930

Dopo 56 anni di esilio fu ammesso il rientro dei Savoia maschi in Italia, interdetto in quelle norme non a caso definite transitorie. L’amara sorpresa per chi aveva per decenni perorato la causa del rientro dei Savoia in Italia, fu che quando fu concessa tale possibilità, Vittorio Emanuele IV e la sua famiglia restarono residenti in Svizzera, a Ginevra, e d’estate in Corsica, a Cavallo; ebbero il diritto di rientrare ma vi rientrarono solo da turisti occasionali, per eventi o in barca. Un segno fin troppo evidente del loro disprezzo per un Paese che hanno martoriato con le loro sbagliatissime decisioni.

  Le responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III, ma attribuite a Mussolini, si stanno facendo sempre più chiare, nonostante i Savoia abbiano fatto sparire molti documenti compromettenti. Un grave errore, nel 1945, fu di non mettere alla sbarra Vittorio Emanuele III e poi processarlo. 

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Ora Emanuele Filiberto sta ricorrendo alla Corte europea dei diritti dell’Uomo ed estenderà la richiesta anche per riavere alcuni immobili. Il governo presieduto da Giorgia Meloni dovrebbe legiferare rapidamente per decidere che quei gioielli appartengono al popolo italiano e non ai Savoia e poi richiedere a degli esperti di organizzare una mostra con un catalogo che li illustri. 

Lo stesso si dovrebbe fare con i sacchi pieni di documenti e preziosi sequestrati a Dongo il 27 aprile 1945, alla colonna dei gerarchi in fuga. Anche questi si trovano ancora a Palazzo Koch e  per la gran parte non sono mai stati aperti.