Per riportare la gente alle urne bisogna introdurre le preferenze

( Paolo Danieli ) Dopo 3 anni di governo Meloni la riforma elettorale non è ancora partita. I solitamente ben informati dicono che dovrebbe andare alle Camere entro la metà del 2026. Speriamo, perché non è più rinviabile. Lo dice l’affluenza alle urne che è in calo ad ogni elezione. Non ci vuole un politologo per capire che la disaffezione al voto è destinata a crescere se la politica non vi pone rimedio. L’astensionismo è una malattia della democrazia.

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L’aula della Camera

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Lo conferma la preoccupazione che viene espressa da tutte le parti politiche ogni volta che si constata la diminuzione dei votanti.  E va demolito il luogo comune secondo il quale sarebbe normale nelle democrazie, come  avviene negli Usa, che sia solo una minoranza a votare.

Un paese non è democratico per il solo fatto che lo è di nome. Se è solo una parte minoritaria dei cittadini che vota significa accettare che governi una minoranza. Il che contraddice il fondamentale principio della sovranità popolare. Una democrazia è reale se esiste la partecipazione al voto. Altrimenti viene svuotata nella sua stessa essenza.
Quelle dove alle urne va una parte minoritaria degli elettori sono democrazie malate.

Perché la gente non va a votare?

Per curare la malattia dell’astensionismo però bisogna porsi una prima domanda: perché la gente non va a votare?
Una parte, ma irrilevante, degli aventi diritto al voto rifiuta il sistema in sé. I più invece non vanno a votare perché lo ritengono inutile. ‘Che io voti o no – ragionano- non cambia nulla. Perciò non mi prendo neanche la briga di perdere mezz’ora del mio tempo per andare al seggio’.

Perché la gente ritiene inutile il voto?

Di qui la seconda domanda: perché ritengono inutile il voto? Perché hanno visto che non incidono. E soprattutto perché non possono scegliere chi li rappresenta. Alle elezioni politiche, che sono le più importanti, non si può esprimere la preferenza.
I parlamentari sono di fatto dei nominati dai capi partito che li scelgono secondo le loro necessità. Una volta eletti devono essere obbedienti e non porre problemi. Devono essere dei soldatini che premano i bottoni secondo gli ordini del capogruppo. Poco importa se nel loro collegio non sono conosciuti e riconosciuti.

Avviene così che quelli che dovrebbero essere i rappresentanti dei cittadini a Roma non hanno bisogno del consenso. Così si disinteressano dei problemi del territorio. A loro interessa solo compiacere il capo per essere poi ricandidati. In pratica non rispondono a chi gli ha dato i voti, ma a chi li ha messi in lista.

Questa situazione comporta che aumenti la distanza fra cittadini e istituzioni, che non ci sia più corrispondenza fra eletti ed elettori. I parlamentari, di qualunque colore, non avendo la necessità di essere scelti dai cittadini si disinteressano dei loro problemi e di fatto non li rappresentano più. E questo per la democrazia è un danno grave.

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Meloni al Senato

E’ per questi motivi che per riportare la gente alle urne è necessario cambiare la legge elettorale introducendo le preferenze.  E’ pur vero, come qualcuno può obiettare, che alle europee, alle comunali e alle regionali le preferenze ci sono ma c’è anche l’astensione. Ma sono elezioni con dinamiche diverse. Le prime, lontane dalla gente, le altre risentono di fattori locali. Ma sono le politiche quelle più rilevanti dal punto di vista della tenuta democratica del paese. E’ in Parlamento che si fanno le leggi che poi incidono nella vita di tutti noi.

Qualche mese fa Giorgia Meloni si era espressa per introdurre le preferenze. Ma poi s’è dovuta occupare d’altro. Ha ancora 2 anni di tempo. Prima lo fa, meglio è.