(Angelo Paratico) «Ah, se potesse tornare Abu Tabela a governarci!» dicono con un sospiro i montanari che vivono attorno a Peshawar, in Pakistan. «Attento, che ti mando da Abu Tabela!» questa invece è la minaccia che usano le loro donne per far star buoni i bambini capricciosi. Ma chi sara mai Abu Tabela?

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Il suo vero nome era Paolo Bartolomeo Avitabile, nativo di Agerola, un comune posto a sette chilometri da Amalfi. Nacque il 25 ottobre 1791 in una famiglia povera e a 16 anni si arruolò nell’esercito napoletano come artigliere, guadagnandosi dopo qualche anno i gradi di tenente. Dopo la sconfitta dei francesi a Tolentino, passò ai Borboni e venne ferito durante l’assedio di Gaeta, condotto dall’austriaco Dever, che poi lo raccomandò per una promozione.

Ferdinando III invece lo mise a mezza paga, e Avitabile decise di emigrare in America, ma la nave su cui s’era imbarcato fece naufragio vicino a Marsiglia.

Pochi mesi dopo lo troviamo a Costantinopoli. Vi incontra due reduci di Waterloo che lo convincono a seguirli in Oriente, dove gli ufficiali napoleonici sono molto apprezzati. Avitabile, a giudicare dai quadri che ci restano di lui, faceva la sua bella figura in uniforme: era alto un metro e ottanta e i favoriti che portava sulle guance gli davano un’aria marziale. Nel 1820 venne impiegato dallo shah di Persia, Fath Ali Shah e restò al suo servizio per sei anni, venendo promosso colonnello e decorato.

Con Jean Baptiste Ventura, nativo di Modena, ma dragone nell’esercito francese, decise di spingersi ancora più a Oriente. Arrivarono a Lahore nel 1827 dove furono immediatamente arruolati dal Maharaja Ranjit Singh, un monarca Sikh ambizioso e intelligente che gli affido la città di Wazirabad, che Avitabile resse per sette anni con mano ferma e severa, facendola prosperare.

Per questo motivo Singh gli affidò poi Peshawar al confine con l’Afghanistan, una città difficilissima da governare, presa da Singh nel 1818 e poi ripersa varie volte. Riuscì nell’impresa quasi impossibile di governarla dal 1834 al 1843.

Avitabile viveva come un pasha a Peshawar, la Gandara di Alessandro Magno, dove disponeva d’un harem di donne e accumulava soldi e oro salassando senza pietà la popolazione. Risiedeva nel palazzo di Gor Khuttree, posto sulla collina che domina la città, una fortezza di duemila metri quadrati, divisa in celle e saloni. Viveva lì dentro, vegliato giorno e notte dalle sue guardie Sikh.

Paolo Avitabile. La crudeltà al potere

Il suo modo di governare fu quello d’un malavitoso, e sono proprio questi suoi metodi che lo resero famoso e famigerato. Il suo motto era “per ogni crimine, una testa” e non passava giorno senza che non vi fossero delle esecuzioni capitali. I corpi delle vittime venivano poi lasciati marcire in bella vista, per spaventare i predoni che infestavano quelle terre. Usava anche impalare e spellare vivi certi condannati a morte, quando la gravità del crimine, a suo insindacabile giudizio, rendeva necessario uscire dalla norma.

Un funzionario inglese, tale Mckinnon, dice che Avitabile soleva interrompere i suoi banchetti per controllare nelle stanze vicine come stava procedendo la tortura di qualcuna delle sue vittime. Il medico ungherese Honinberger, che lo curò per una frattura, scrisse un libro di memorie intitolato “Trentacinque anni in Oriente” in cui lasciò detto che quell’uomo era uno psicopatico anche se sembrava normalissimo, e che godeva nell’assistere alle esecuzioni capitali. Attribuì quel suo stato alterato a un eccesso di bevande alcooliche e al clima.

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Il Khyber Pass, un passo strategico dai tempi di Alessandro Magno

Joseph Wolff, un bizzarro missionario tedesco, scrisse che nonostante avesse ammassato una gran fortuna, sognava sempre di tornare a Napoli e mormorava: «Per amor di Dio, fatemi uscire da ’sto posto». Aveva fatto modificare il minareto della moschea di Mahabat Khan per trasformarlo in un trampolino di lancio per i condannati a morte. Uno di questi riuscì ad attaccarsi al cornicione e urlava che Allah l’aveva miracolato, e i due boia non riuscivano a riacciuffarlo.

Avitabile, per risolvere quella impasse scrisse la sua grazia su di una pergamena dicendo di consegnarla al disgraziato e una volta ripreso lo dovevano ributtare giù: “Allah perdona, Avitabile no” divenne il suo motto e infatti era famoso per non aver mai concesso la grazia a nessuno.

Dopo aver eliminato tutti gli assassini sui quali riusciva a mettere le mani, cominciò a occuparsi degli spioni e dei bugiardi, e raccontò a un amico di Agerola che «un giorno venne da me uno che sosteneva di saper far ricrescere la lingua a coloro a cui io la tagliavo. Feci tagliare anche la sua. Da allora regna la pace a Peshawar». Tutta quella crudeltà esercitava una forza ipnotica sulla popolazione, che da quelle parti la scambiava per giustizia. Anche i tagliagole delle montagne lo rispettavano, credendo di avere a che fare con un malommo come loro.

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Luoghi della magnifica città di Peshawar, capitale di Avitabile

La prova della loro ammirazione la si vide quando i suoi Sikh si ribellarono, ricattandolo per estorcergli grosse somme di denaro. Avitabile, con spirito machiavellico, chiamò i suoi nemici di sempre, i ladroni afghani delle montagne, convincendoli a massacrare i Sikh, e in cambio li avrebbe lasciati liberi di violentare le loro donne e rubare l’oro che si portavano dentro ai turbanti. Il problema fu risolto senza spesa e fatica! Mentre quelli compivano la loro opera, Avitabile andò a farsi le sue meritate ferie a Jalalabad.

Da Peshawar Avitabile controllava l’accesso al passo del Kyber, un punto strategico che segnava il confine fra il Pakistan e l’Afghanistan e che durante la prima guerra anglo afghana, dal 1839 al 1842, fu la chiave di volta del Grande Gioco che veniva combattuto fra gli inglesi e i russi in Asia. Quando nel 1842 gli inglesi mandarono una spedizione punitiva per vendicare il massacro dei loro soldati e delle rispettive famiglie, Avitabile prestò loro cifre enormi, munizioni, viveri, e si fece depositare quelle somme su un suo conto bancario di Londra.

Essendosi fatto ricco sfondato, nel 1843 Avitabile lasciò la sua carica e fece ritorno a Napoli, ma prima fece tappa a Londra dove passò a salutare il suo amico Duca di Wellington, un forcaiolo come lui. A Napoli s’aspettava un importante incarico alla corte di re Bomba, Ferdinando II. Gli portò dei doni favolosi dall’Oriente, ma venne completamente ignorato.

Avitabile si fece costruire un bel palazzo vicino al paesello natio, facendo demolire le rovine della chiesa benedettina di San Severino, a Scanzano. Sposò la figlia di suo fratello, di quarant’anni più giovane di lui, dopo aver ricevuto la dispensa dalla Chiesa, ma quella ragazza era già fidanzata con un altro e fu così che, il 28 marzo 1850 alla vigilia di Pasqua, gli diedero da mangiare dell’agnello avvelenato.

Dopo qualche ora di agonia nel suo palazzo appena intonacato, spirò, mormorando: «Mi hanno avvelenato, ma vi faccio vedere io chi è Avitabile…». Dove non erano arrivati gli assassini afghani arrivarono i parenti. Aveva solo cinquantanove anni. La lapide marmorea che posero sulla sua tomba e ancora visibile nella chiesa di San Martino, frazione di Campora.

Il nome del generale Paolo Avitabile è riemerso dall’oblio grazie al fortunato romanzo di George McDonald Fraser “Flashman” uscito nel 1969 in cui il protagonista, un simpatico cialtrone, viene fatto muovere entro a situazioni storiche ben documentate e incontra Avitabile a Peshawar, sbronzandosi bestialmente con lui, prima di ripartire per Kabul. Nel 2001 sul Corriere della Sera ne accennò anche Terzani in un suo reportage, e nel 2002 uscì una biografia di Stefano Malatesta, in cui però il Nostro Avitabile appare come comparsa, più che come protagonista.

Cinquant’anni dopo la sua morte, Julian Cotton, uno scrittore inglese, arrivò ad Agerola per indagare su di lui, e scriverci un libro, che venne poi tradotto in italiano nel 1917: gli fecero vedere il suo diario, purtroppo andato perduto, e parlò con gente che l’aveva conosciuto.

Il suo palazzo era già in rovina, ma sulla porta era visibile ancora la scritta che il generale aveva fatto scolpire. Era una frase di San Bernardo: «O beata solitudo, o sola beatitudo».