(Alberto Lorusso) Da qualche giorno, fuori dalla stazione di Porta Nuova è comparso un piccolo altarino posticcio con alcune croci piantate nell’aiuola. Un simulacro di camposanto che dovrebbe ricordare Moussa Diarra, il giovane morto un anno fa dopo un colpo esploso da un Agente di Polizia.
Per questi fatti, la Procura ha chiesto l’archiviazione, ritenendo che l’Agente abbia agito per legittima difesa. È un passaggio importante, perché i fatti sono stati ricostruiti e valutati nelle sedi proprie e la verità è che la Polizia ha agito nel rispetto della legge.
La domanda è semplice: chi è l’autore di quell’installazione?
Se l’altarino fosse un’ invenzione dell’amministrazione comunale
Se fosse un’iniziativa dell’Amministrazione comunale, sarebbe prematuro, poiché nessun Giudice si è ancora pronunciato definitivamente sugli accadimenti ed un’Istituzione deve muoversi solo quando i fatti sono accertati, non quando prevale l’emotività.
Inoltre, anche mettendo da parte gli aspetti istituzionali, resta il dubbio che questo sia davvero un modo dignitoso per ricordare una vita spezzata: un finto cimitero di cartone in un’aiuola, tra il traffico e i taxi, non comunica rispetto.
Se con l’altarino il comune non c’entra
Se invece il Comune non c’entra, la questione cambia ma non migliora: significherebbe che a Verona chiunque può fare ciò che vuole. Non è libertà: è disordine.
In questi mesi, intorno alla morte di Moussa Diarra, qualcuno ha alimentato un clima di sospetto e diffidenza verso le Forze dell’Ordine. È lecito nutrire il dubbio che il tragico evento della morte del ragazzo sia stato l’occasione per dare sfogo ad un senso di avversione personale verso le Divise.
Io, però, non capisco quest’odio. Quando penso alle Forze dell’Ordine, mi vengono in mente tante persone che conosco, con un nome, un volto. Persone che svolgono il proprio lavoro, con responsabilità. E poi penso anche a Salvo D’Acquisto, agli Agenti delle scorte di Falcone e Borsellino, a Luigi Calabresi. Gente che è morta facendo il proprio dovere. Dobbiamo ricordare a noi stessi che dentro ad una divisa c’è una persona. I Carabinieri, i Poliziotti, i Finanzieri, chi porta un’Uniforme, cioè, non sono entità astratte: sono persone.
E allora, finiamola con le divisioni costruite su preconcetti: chi porta un’uniforme è un padre o una madre; fa la spesa; paga le bollette; cerca di mettere da parte qualcosa per le vacanze; si preoccupa dei voti dei figli a Scuola; va alle riunioni di Condominio; accompagna i figli a calcio ed a scuola di danza; ha un cane od un gatto; va in bicicletta; aspetta i saldi; paga il mutuo. Sono persone che vivono le stesse difficoltà di tutti, ma, in più, svolgono un lavoro che li espone a situazioni difficili e rischiose.
Ognuno di noi, nella propria quotidianità, fa la propria parte per la vita della comunità, ma chi indossa una divisa si assume un rischio che gli altri non hanno: porta sulle spalle un pezzo della sicurezza di tutti.
Io dico no ad una Società avvelenata dai preconcetti che non c’entrano con la realtà. Restiamo ancorati alla concretezza. Teniamo a mente che la divisa non sta in piedi da sola: dentro, c’è una persona come noi. C’è il nostro vicino di casa, il papà del ragazzino che va a Scuola col nostro, quella donna che vediamo a passeggio col cane, quel ragazzo che va dal nostro stesso barbiere.
E allora, quando incontriamo una persona in divisa, possiamo fare una cosa semplice: sorriderle. Non è retorica: è dire “grazie” per quel qualcosa in più che fa per tutti. È un modo civile, umano, di tenere insieme la comunità, di ricordarci che stiamo tutti dalla stessa parte.
