(Angelo Paratico) Questa sera sono passato a salutare Luigi Sona nel suo negozio di libri e articoli di cartoleria d’alto livello in via Mameli. L’ho trovato immerso nella lettura di un libro nel quale si accennava anche alla strage di Maso di Negrar. Mi chiede se ne sono a conoscenza, gli dico di no e lui aggiunge che è una storia raccapricciante che raccontavano i vecchi di tutta la Valpolicella. Tornato a casa mi documento e devo ammettere che è vero tutti ne hanno sentito parlare. Si dice anche che la casa in cui si svolse il fatto sia ancora abitata da fantasmi, è visibile salendo da Quinzano.

Tutto accadde in una fattoria di proprietà di Luigi Riccatore, un possidente di Negrar, che l’aveva data in gestione al colonnello degli alpini a riposo Clemente Dalmazzo di 64 anni, originario di Dronero, in provincia di Cuneo. Era arrivato a Verona nel 1943 con la moglie, Emma Borro di 39 anni e i tre figli di 12, 8 e 6 anni. Godeva di una certa reputazione a livello militare perché nel 1940 aveva pubblicato un libro molto dettagliato e ancora valido, intitolato Guida Storica dall’Adige al Piave nella guerra italo-austriaca dal 1915 al 1918 ed. La Prora, Milano.

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Nella gestione della fattoria il colonnello entrò in contrasto con due dipendenti, due fratelli originari di Tregnago, che lui accusava di negligenza e di aver fatto sparire due buoi. La notte del 28 giugno 1946 si disse che un contadino verso mezzanotte udì delle esplosioni e degli urli ed entrato nella proprietà vicina trovò il colonello a terra con il cranio fracassato, ma ancora vivo, morirà qualche giorno dopo senza riprendere conoscenza. Quel contadino (poi emerse era uno degli assassini) non entrò nella villa ma corse a Negrar ad allertare i carabinieri e ritornò sul posto con il medico condotto dott. Villani, il maresciallo dei carabinieri e il parroco. La moglie del colonello era a terra con il viso sfigurato, anche i figli erano stati mortalmente colpiti. I carabinieri fermarono dieci dipendenti dell’azienda agricola e cominciarono a indagare.

Nell’ufficio del colonnello giaceva a terra la moglie. In cucina, pure con la testa ferita, ma ancora vivi giacevano i due figli maggiori del colonnello; infine, nella stanza da letto, rantolante si trovava il figlio minore. Mario di dodici anni, Giancarlo di otto anni, Guido sei anni, moriranno poco dopo il ricovero in ospedale; il padre morirà solo lunedì 1 luglio 1946.

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L’Arena del primo luglio 1946 scrisse che questo delitto scuote profondamente l’opinione pubblica cittadina e nazionale ed «è difficile trovare riscontro, nelle cronache della nostra provincia, di una strage così freddamente meditata e attuata con metodi tanto atroci». Anche il Corriere della Sera di Milano pubblicò un articolo.

Il caso venne presto risolto da Anna Salgarolo, moglie di Augusto Tomasi, autore del delitto insieme al fratello Guerrino. Confessò di avere assistito, non vista, ai delitti e non riusciva a cancellare dalla mente le scene di quella tragedia. I due fratelli Tomasi negarono ogni addebito decisamente ma poi, messi davanti alle prove schiaccianti della loro colpevolezza, confessano i loro delitti. Raccontarono che il colonnello li aveva trattati duramente dopo che erano spariti dei fondi e per la mancanza di legna dai boschi. I due assassini, qualche tempo prima di compiere il delitto, ebbero alterchi con il colonnello che decise di tenere le chiavi del granaio comune finché i mezzadri non avessero saldato la loro parte di perdita per il furto dei due buoi avvenuto due mesi prima.

I due fratelli, la sera del 28 giugno, introdussero nella serratura del cancello un pezzetto di ferro per aver motivo di chiamare l’amministratore. Il colonnello si presentò accompagnato dalla moglie ed allora i due non osarono agire. Poco dopo l’ufficiale ritornava da loro, questa volta da solo, con una catena ed un lucchetto e mentre tentava di far funzionare la serratura, Guerrino, di 17 anni, gli vibrava un colpo sul capo che lo faceva cadere a terra. Poiché la vittima sembrava ancora viva, il fratello Augusto, 23 anni, lo tenne fermo per permettere a Guerrino di colpirlo nuovamente con un grosso chiavistello di ferro. Poi i due sollevarono il corpo dell’ufficiale e lo gettarono sotto al fienile. Poi andarono da sua moglie e le chiesero delle chiavi. Appena la donna fu di fronte a loro, Guerrino le sparò un colpo in faccia, accorsero i bambini e uccisero anche loro, il più grande, Mario di 12 anni si nascose sotto al letto ma lo tirarono fuori e lo finirono a mazzate in testa. Poi pensano di simulare una rapina e misero a soqquadro l’abitazione, presero sei bombe a mano lanciandole dietro la casa  per simulare un assalto alla villa. Augusto tornò a casa, si cambiò, gettò la tuta macchiata di sangue nel letamaio dopodiché suo padre lo mandò a suonare la campana dell’allarme. Guerrino, invece, si diresse attraverso i campi alle case coloniche vicine per cercare l’aiuto di alcune famiglie di mezzadri, si spogliò della camicia e dei pantaloni insanguinati, li nascose sotto dei cespugli, si lavò ad una fonte e sotto una siepe occultò la rivoltella. Poi in mutande chiamò i contadini, fingendo di essersi alzato precipitosamente dal letto al suono della campana d’allarme. Tornò con loro alla villa e subito dopo rientrò nella sua abitazione, si vestì e corse ad avvertire il medico condotto e i carabinieri di Negrar.

La crudeltà e la freddezza con la quale il crimine fu eseguito lasciarono sconcertati gli stessi carabinieri. Guerrino Tomasi, mentre era trattenuto dalle forze dell’ordine nella stazione del Teatro Romano per gli interrogatori, ebbe a dire: «La pena di morte non c’è più. Mi daranno trent’anni. Dieci vengono amnistiati e negli altri venti chissà quante amnistie verranno ancora».

Al processo, a Verona nel 1948, l’aula era affollata. Il pubblico si aspetta una condanna esemplare dei due fratelli autori di quella che è stata battezzata come la «strage del Maso di Negrar». L’avvocato Cavalla, che rappresenta i parenti delle vittime, invita la giuria comportarsi come un chirurgo «che affonda la lama e ridona la vita». I giudici sono del suo parere, rigettano la richiesta di seminfermità mentale e, dopo quaranta minuti di camera di consiglio, condannano i due all’ergastolo «con isolamento diurno per sei anni». Il pubblico applaudì la dura e rapida sentenza.

«Con lo sguardo fermo – dirà il cronista de L‘Arena – le due belve lasciano poco dopo l’aula». A Venezia la condanna verrà riconfermata, il 17 novembre 1952.

Guerino Tomasi morì in un incidente al porto di Ventotene dove era detenuto il 9 gennaio 1962, sfracellato sugli scogli da un’onda anomala e poi risucchiato in mare assieme ad altri detenuti. Augusto Tomasi morirà a metà degli anni 70 a Ronco all’Adige dove era ospite presso la casa di ex detenuti, in un incidente stradale, in bicicletta venne stritolato dalle ruote di un camion.

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Clemente Dalmazzo