(di Gianni Schicchi) Mancava da vent’anni “Ernani” di Verdi al Filarmonico e in occasione delle festività natalizie la Fondazione Arena ha voluto riproporne una nuova edizione affidata nella regia, scene, costumi, luci e movimenti a Stefano Poda, in collaborazione con l’Opera National Capitole di Tolosa (per le scene) e con il Teatro Regio di Torino (per i costumi).

Se l’opera verdiana appare oggi un po’ stravagante, non lo è certamente più del dramma di Victor Hugo da cui trae origine. Né si trova nel librettista Francesco Maria Piave un passo tanto ridicolo come il discorso di Silva rivolto a don Carlo additando i ritratti degli avi. Se il suo libretto rivela quella vena di humor sardonico che conferisce a don Carlo una più alta statura rispetto ai suoi ossessionati rivali, Verdi stesso provvede a suggerire il tratto essenziale della grandezza di quest’uomo, e lo fa col mezzo più semplice: la voce del baritono. 

Ế questa l’opera in cui il compositore definisce con più chiarezza i suoi archetipi per le voci maschili: il basso monocromo e granitico (Silva), più antico delle radici stesse del suo orgoglio familiare; il tenore eroico, lirico, ardente, disperato (Ernani); e infine, partecipe delle due anime, zefiro e uragano ad un tempo, il baritono verdiano (don Carlo), il maggiore veicolo di potenza nell’opera italiana. L’opera è costruita sullo scontro tra i tre tipi vocali, che si alternano con un vigore sempre crescente: questa è essenzialmente la sua novità. 

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Riguardo all’armonia ed all’orchestrazione, Ernani è poi opera molto meno coscientemente innovatrice dei Lombardi alla prima crociata: l’inventiva si muove in un campo più ristretto. Eppure il lavoro ci guadagna enormemente dalla maggiore unità di intenti, che a sua volta si deve alla logica con la quale Hugo aveva svolto la trama drammatica. In due soli aspetti il raffronto con il dramma originario si dimostra sfavorevole all’opera, proprio perché il tenore, anche se inoppugnabilmente eroico, in Ernani ha poco risalto nelle contese vocali con il baritono e il basso. 

E difatti al Filarmonico hanno letteralmente trionfato i cantanti preposti alle due parti, soprattutto quella di don Carlo con uno stupefacente Amartuvshin Enkhbat che ha dato una altissima lezione vocale e di stile, salutata al termine da una grandiosa ovazione del pubblico. Oggi il baritono mongolo è sicuramente ai primi posti della graduatoria, per la voce magnifica, sul cui soffice velluto passano ombreggiature di assorta melanconia, sostenendo anche l’alta tessitura nell’Andantino “Da quel dì che t’ho veduta”, per la pateticità di certi ardui pianissimi, per l’aristocratica scansione dei declamati quali “Tu se’ Ernani” o “Lo vedremo, veglio audace”, nonché per una grande aria del terzo atto, mai sentita a questi livelli, neppure ai tempi di remotissime incisioni discografiche.

Per la parte di Silva, la voce di Vitalij Kowaljow, sebbene un po’ accorciata in certi passaggi ad alta quota, nulla ha perso in termini di smalto, colore e inconfondibile autorità di accento; appunto quanto risulta indispensabile a rendere appieno il senso del fraseggio che il melodramma ottocentesco ha concesso a certe parti di basso, così scultoreo e magniloquente. Di sfarzosa ricchezza armonica anche la sua grande aria del primo tempo: “Infelice! E tu credevi”.

Il tenore Antonio Poli nel ruolo del titolo (rimpiazzava il collega Angelo Villari) ha costruito una interpretazione tutta in crescendo e piena di bellissimi momenti. Vibrante nel terzetto col baritono; molto espressivo lo splendido “Io tuo fido il sarò a tutte l’ore”; perfetto l’equilibrio tra enfasi oratoria e gusto musicale nello scabroso “Oro quant’oro” e “Io son con te”. La scena con Silva alla chiusa del secondo atto è anche splendida grazie alla fusione sensazionale tra un’orchestra turbinosa e incalzante col tonante fraseggio di Kowaljow.

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Debuttava al Filarmonico la russa Olga Maslova come Elvira (finalmente un soprano scenicamente credibile, confidando che siano finiti i tempi dei soprani americani in sovrappeso) che ha mantenuto per tutta l’opera svettanti concertati con una prodigalità di si bemolli, si naturali e do conclusivi che sono stati una vera meraviglia per lo squillo timbrato. Ma è anche l’espressione del soprano che ha convinto pienamente. La concitazione con cui sottovoce, eppure con estrema intensità, viene scandito il “Fuggi Ernani”; certi suoni aerei, nondimeno pieni di corpo nella scena con Ernani al secondo atto; al sol acuto di “Non son rea” dove c’è un assottigliamento da vero manuale, per tacere dell’ultimo atto che merita un discorso a sé. Un’interpretazione in definitiva che dall’ultima nota della cabaletta d’entrata in poi è tutta maiuscola. Meritevoli di nota infine gli interventi delle parti minori: con la Giovanna di Elisabetta Zizzo, il don Riccardo di Saverio Fiore e lo Jago di Gabriele Sagona. 

La direzione di Paolo Arrivabeni ha organizzato una lettura musicale di trascinante abbandono melodico e di struggenti ripiegamenti lirici. Già il breve preludio è sostenuto da un suono pieno e vibrante, colmo di tensione che delinea immediatamente un’atmosfera romanticissima. Poi tutte le introduzioni ai pezzi chiusi sono inquadrate con una certa fantasia narrativa, conferendo ad ognuna di esse la tinta più appropriata, lasciando poi che il canto si porti in primo piano, facendo cantare di conseguenza l’orchestra. Il che è sacrosanto perché di trascinante forza canora questa opera è costruita per intero.

Va anche detto che Arrivabeni è assecondato poi da una orchestra eccellente in tutte le sezioni e da un coro, preparato dal maestro Roberto Gabbiani, semplicemente  straordinario, che passa dalla più eterea alla più corrusca sonorità senza incrinare mai la perfezione del proprio amalgama: sentire tutte quelle voci diverse che in “Pungerem con le braccia e coi petti” passano di registro tutte assieme, senza una sola sbavatura, mantenendo sempre un timbro intenso e corposo, è un’esperienza davvero rara.

L’allestimento di Poda è imponente nel suo scandire tempi attuali (le spade sono sostituite dalle pistole), con un grande sfarzo di luci e di specchi che hanno fatto pensare per qualche attimo alla storica Traviata di Svoboda, dove si è ricorsi pure al palcoscenico girevole. Ma non tutto è piaciuto al pubblico (regia e scene) come la presenza soffocante di tanti mimi con i loro (incomprensibili) movimenti che hanno finito per distrarre lo spettatore (e qualcuno ce lo ha voluto sottolineare). Al termine infatti il regista Stefano Poda è stato sonoramente contestato dal pubblico. Un vero peccato per il teatro esaurito e per un cast di alto livello che è stato salutato invece da vistosi consensi.