(David Benedetti) Nel 1975 i Pink Floyd pubblicano Wish You Were Here, ma il disco che oggi celebriamo come uno dei vertici assoluti del prog rock nasce in realtà da un vuoto creativo e umano profondo. Dopo il successo travolgente di The Dark Side of the Moon, la band entra in Abbey Road senza idee chiare, paralizzata dalla pressione del capolavoro appena realizzato. Per settimane, raccontano i tecnici, i Floyd suonano frammenti senza nome, provando e scartando, spesso in silenzio.
La celebre suite Shine On You Crazy Diamond viene registrata in più fasi e montata solo alla fine: all’inizio non doveva nemmeno aprire l’album. È durante una di quelle sessioni che avviene uno degli episodi più inquietanti della storia del rock. Syd Barrett, ex leader del gruppo e dedicatario implicito del brano, entra in studio senza essere riconosciuto: rasato, ingrassato, con lo sguardo perso. Nessuno lo aspetta. Solo quando chiede di ascoltare il pezzo capiscono chi sia. Roger Waters scoppia a piangere. Barrett non tornerà mai più.

Pochi sanno che il celebre intro della title track – la radio gracchiante che “gira” tra stazioni AM – non è un effetto simbolico ma un gesto casuale di David Gilmour, che stava davvero cercando qualcosa da ascoltare in auto. Quel suono imperfetto viene mantenuto per accentuare l’idea di distanza, interferenza, assenza: il vero tema dell’album.
Anche la copertina, oggi iconica, ha un retroscena disturbante. I due uomini che si stringono la mano negli studi Warner di Los Angeles sono veri stuntman. Quello che prende fuoco, Ronnie Rondell, indossa una tuta ignifuga difettosa: le fiamme salgono più del previsto e la stretta di mano dura più a lungo perché non sente il segnale per interromperla. L’album nasce così: da un gesto di fiducia che brucia.
Il suono metallico che attraversa Welcome to the Machine non è un sintetizzatore: è una ventola industriale registrata e manipolata. L’industria musicale, suggerisce Waters, non è una metafora: è davvero una macchina.
A cinquant’anni di distanza, Wish You Were Here resta un disco sulla mancanza, sull’amicizia tradita dal successo, sull’identità che si dissolve. Un album che non celebra il rock, ma lo mette in discussione. E forse è per questo che continua a parlare così forte, proprio nel suo silenzio.
