(Alberto Lorusso) Nel 2020, in pieno Covid, durante una riunione online, nacque Verona Riparte. Eravamo alcuni amici, uno schermo acceso e l’idea — semplice, quasi ingenua — che la delega ai soliti avesse rivelato i propri limiti e che fosse giusto provare ad occuparsi della propria città.

Da allora, ogni giorno, cittadini diversi ci raccontano problemi, segnalano disservizi, fotografano il degrado, scrivono, insistono, si confrontano. E spesso, dalle loro segnalazioni, sono nate soluzioni. Questo dovrebbe bastare per capire una cosa: non è vero che nessuno ascolta. Ma, soprattutto, ogni cittadino conta.

Tutti hanno il diritto di essere ascoltati, anche se la Politica (con la maiuscola) ignora. Ciò nonostante, una domanda ritorna sempre: “Ma chi te lo fa fare?” Perché dovremmo dedicare tempo, energie, competenze alla nostra città? Perché impegnarsi, quando sarebbe più comodo voltarsi dall’altra parte? Perché esporsi, faticare, sottrarre tempo alle proprie passioni, rischiare perfino di essere derisi o attaccati?

La risposta non riguarda soltanto qualcuno. Riguarda tutti noi. Una comunità migliora, solo se qualcuno decide di non restare seduto. Di non aspettare che siano sempre altri a risolvere problemi che viviamo ogni giorno. Di non limitarsi a lamentarsi. JFK lo disse meglio di chiunque altro: “non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te. Chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. E Verona è il nostro Paese.

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La forza dei piccoli gesti

Chi sostiene che “da soli non si cambia nulla” dovrebbe provare un esperimento molto semplice: tentare di dormire con una zanzara nella stanza. Chiunque abbia passato quella notte sa quanto sia fragile l’idea che “un essere minuscolo è insignificante”.
Se un ronzio può trasformare il sonno in tormento, la determinazione di un cittadino può trasformare una città.

Ciò che sembra marginale può disturbare, smuovere, cambiare il corso delle cose. E ogni persona che decide di impegnarsi davvero contribuisce a un cambiamento più grande.

Una storia che insegna più di tanti discorsi: Zia Maria

Ogni famiglia custodisce racconti. La mia ne tramanda uno che vale più di una teoria politica: la storia di Zia Maria. Io non l’ho mai conosciuta e non so nemmeno con precisione quale fosse il nostro grado di parentela. Ma le sue gesta aleggiavano in casa come una leggenda.


 Era sposata con un ragazzo del ’99, uno di quei giovani mandati al fronte poco più che bambini, e che dalla guerra tornò spezzato nell’anima. Soffriva di attacchi di panico così forti che, quando lo coglievano, lei lo trascinava fino alla caserma dei Carabinieri, dove i Militari lo custodivano in camera di sicurezza finché la crisi passava.
Zia Maria, che non aveva potuto studiare, aveva un figlio — non ne so nemmeno il nome — colpito dalla poliomielite. Dicevano che fosse “rimasto un po’ indietro”, che “ghe mancava un boio”.

Durante il Ventennio, i bambini potevano andare in colonia. Il suo, però, no. Per ragioni mai chiarite, il Fascio di Schio non ce lo mandava. Zia Maria avrebbe potuto rassegnarsi, com’era normale per l’epoca. Ma non lo fece.

Quando seppe che il Duce sarebbe andato in visita dalle sue parti, studiò il percorso del corteo, si appostò lungo la strada e aspettò. Pazientemente, ostinatamente. Quando l’auto scoperta con il Capo del Governo si avvicinò, fece l’inimmaginabile: sollevò suo figlio e lo scaraventò dentro la vettura. L’auto si fermò e lei colse l’occasione irripetibile.

Parlò col Duce. Spiegò. Protestò. Pretese. Il risultato fu semplice: il bambino andò in colonia.

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Un monito per tutti noi

Zia Maria non era un’eroina. Non era un’attivista, né una politica, né una figura di potere. In un’epoca di obbedienza, era una cittadina. Con un gesto audace fece valere un diritto negato. Lo fece per suo figlio. Per giustizia. Per dignità. Oggi, la sua storia ci ricorda che nessuno è troppo piccolo per cambiare qualcosa. Che l’ingiustizia non è mai un destino inevitabile. Che il coraggio di un solo individuo può modificare la traiettoria di una vita, e talvolta di un’intera comunità.

Per questo, il suo ricordo è un invito. Un monito. Dobbiamo essere tutti Zia Maria. Dobbiamo credere che, quando qualcosa è ingiusto, si può e si deve intervenire. Che, anche se siamo soli, anche se siamo piccoli, anche se ci dicono che è inutile, un gesto può cambiare il corso delle cose. Non è un compito di pochi. È un compito di tutti.

E Verona — oggi più che mai — ha bisogno proprio di questo: non di spettatori, ma di cittadini. Non di sudditi, ma di persone che scelgono di esserci. Di prendersi cura. Di partecipare. Di reagire. Di decidere. Di agire.

Perché è così che, da sempre, le comunità ricominciano. Una persona alla volta. Un gesto alla volta. Una Zia Maria alla volta.