Nel cuore produttivo dell’Europa, le piccole e medie imprese italiane continuano a brillare. Confrontate con le realtà europee della stessa dimensione, le Pmi italiane emergono infatti come modello di efficienza, resilienza e valore. A evidenziarlo è l’Ufficio Studi della CGIA, che attraverso gli ultimi dati disponibili traccia un quadro che ribalta molti luoghi comuni.

Un esercito di 4,7 milioni di pmi

In Italia le Pmi rappresentano quasi la totalità del tessuto produttivo: 4,7 milioni di aziende, pari al 99,9% del totale. Un universo imprenditoriale che dà lavoro a 14,2 milioni di persone, ossia oltre tre quarti degli addetti del Paese. Al confronto, le grandi imprese — appena 4.619 realtà, lo 0,1% del totale — occupano comunque 4,4 milioni di lavoratori, concentrando il 23,6% dell’occupazione.

Sul fronte dei risultati economici, le Pmi generano il 64% del fatturato nazionale e il 65% del valore aggiunto. Le imprese maggiori si fermano rispettivamente al 36% e al 35%. Una fotografia che evidenzia un’asimmetria strutturale: poche grandi aziende, tantissimi piccoli operatori che sostengono l’economia reale.

Leader in Europa: quando la dimensione non limita la performance

Allargando lo sguardo all’Unione Europea, la posizione delle Pmi italiane risulta persino più solida. Sebbene la loro numerosità sia sostanzialmente allineata a quella dei principali Paesi competitor, il loro peso economico risulta decisamente superiore.

Se paragonate alle omologhe tedesche, lo scenario è ancora più eloquente. In termini di Occupazione le Pmi italiane assorbono il 74,6% degli addetti totali, contro il 55,2% di quelle tedesche. Per Fatturato il  62,9% contro 35,8%. per Valore aggiunto il 61,7% contro 46%.

La conclusione è chiara: la nostra economia non poggia su pochi colossi, ma su un mosaico esteso e vitale di imprese che mantengono vivo il tessuto occupazionale e produttivo del Paese.

Produttività: sorpasso sulle Pmi tedesche

Contrariamente a un cliché molto diffuso, le Pmi italiane in senso stretto (10-249 addetti) risultano più produttive di quelle tedesche, con un vantaggio di 4.229 euro per occupato (+6,6%). Una sorta di contropiede economico che ribalta la narrativa secondo cui Berlino domina incontrastata nel settore manifatturiero europeo.

Il divario resta invece significativo tra le microimprese (0-9 addetti), dove la produttività italiana è inferiore del 33% rispetto alla Germania. È un terreno in cui l’Italia paga la cronica difficoltà a investire in innovazione, ricerca e sviluppo nelle aziende più piccole. Colmare questo gap significherebbe completare il sorpasso su tutta la scala dimensionale fino ai 250 addetti.

L’assenza delle grandi imprese: il vero tallone d’Achille

Se la vitalità delle Pmi è indiscutibile, il sistema produttivo italiano soffre una debolezza strutturale: la quasi scomparsa delle grandi aziende. Fino agli anni ’80 l’Italia poteva contare su giganti industriali capaci di competere a livello mondiale nei settori chimico, siderurgico, informatico, automobilistico, farmaceutico. Da Montedison a Olivetti, da Italsider a Fiat, il panorama era costellato di protagonisti, molti dei quali a partecipazione pubblica.

Quell’ecosistema è progressivamente collassato sotto l’effetto combinato di Tangentopoli, privatizzazioni, globalizzazione e profonde mutazioni geopolitiche. Oggi il Paese si ritrova con una struttura produttiva sbilanciata e priva di grandi player in grado di fare da traino.

È grazie alle Pmi se l’Italia resta nel G20

Ogni volta che si discute di produttività, salari bassi o ritardi nell’innovazione, si punta il dito contro l’eccessiva frammentazione delle imprese italiane. Ma i dati suggeriscono una lettura diversa: non è la presenza di troppe Pmi a frenare il Paese, bensì l’assenza delle grandi imprese.

Se l’Italia è ancora nel G20, il merito è dei suoi milioni di imprenditori e lavoratori che, tra laboratori, officine, studi professionali e microfabbriche, hanno saputo trasformare creatività, qualità e design in una forza economica riconosciuta in tutto il mondo.

Il Mezzogiorno: dove le Pmi tengono in piedi intere province

Nel Sud, dove le grandi imprese sono poche e le multinazionali quasi inesistenti, le Pmi rappresentano un pilastro ancora più decisivo. In alcune province, la loro incidenza occupazionale raggiunge livelli assoluti: a Vibo Valentia il 100% degli occupati, a Isernia il 98,5%, a Trapani e Agrigento il98,3%, a Campobasso il 98,2%.

All’estremo opposto, i territori più “sbilanciati” verso le grandi imprese restano le grandi aree metropolitane: Torino (63,9%), Roma (63,5%) e Milano (51%).

Conclusione

Le Pmi italiane non sono solo un elemento della nostra economia: sono la nostra economia. Nel bene e nel male, costituiscono le fondamenta di un modello produttivo unico nel panorama europeo, capace di eccellere nonostante limiti strutturali evidenti. Sono loro, più di qualsiasi altro fattore, a garantire al Paese un posto nel gotha industriale mondiale.

E se il futuro richiederà più innovazione, più ricerca e un nuovo equilibrio tra micro realtà e grandi player, una cosa rimane certa: senza la tenacia e la genialità delle Pmi, l’Italia semplicemente non sarebbe l’Italia.