(Attilio Zorzi) L’esito delle elezioni regionali in Veneto, Campania e Puglia ha confermato le attese, con il Veneto rimasto al centro destra, dove il leghista Stefani è stato eletto presidente con oltre il 64% dei voti, la Campania è rimasta al campo largo passando però dal Pd ai Cinque Stelle, con Fico nuovo governatore e la Puglia si è mantenuta in quota Pd con Decaro, che ha preso il posto di Emiliano. Anche questi ultimi due neopresidenti sono stati eletti con oltre il 30% di vantaggio sugli sfidanti di centro destra.

La tendenza è, quindi, confermata con il centro destra che mantiene il Veneto nel Nord produttivo  e federalista e il centro sinistra che mantiene il sud, più assistenzialista e statalista.
Nulla di nuovo e niente di sorprendente. Tutto da copione insomma, e quindi, al netto di quanto ci raccontano i grandi media, queste elezioni non rappresentano un colpo al governo Meloni da parte del centro sinistra, dato che nessun equilibrio è cambiato, ma confermano soltanto il distacco ancora marcato tra nord e sud e tra i sistemi di potere differenti che caratterizzano storicamente le diverse regioni d’Italia.

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Sul piano governativo il vero segnale proviene, invece, dall’interno della coalizione di centro destra, poichè la dimostrazione di forza di Zaia in Veneto, che da capolista della Lega ha ottenuto oltre 200.000 preferenze, ossia circa il 10% dei voti complessivi e conseguentemente ha trainato oltre il 20% dei voti a favore della Lega, ha mostrato come siano le persone a fare la differenza e non i partiti e che più ci si avvicina al territorio e più conta la credibilità personale, anziché il simbolo. La Lega è tornata primo partito in Veneto, ma la vittoria è di Zaia, che ha mostrato a Salvini che il consenso è della “Lega Veneta” e non della “Lega per Salvini Premier”, e alla Meloni che la roccaforte del centro destra, sceglie prima il territorio e le persone e solo dopo i partiti. Segnali forti, che dovranno far riflettere i leader della coalizione sul ruolo che dovrà ricoprire l’ex governatore del Veneto.

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Ad ogni modo, il vero dato che deve far riflettere è il calo marcato dell’affluenza, in tutte e tre le regioni ampiamente sotto il 50%. In Veneto l’affluenza si è fermata al 44,5% e questo dimostra una grande disaffezione ed una distanza sempre più siderale tra cittadini ed istituzioni e conseguentemente tra votanti e candidati. Troppo spesso, infatti, questi ultimi vengono scelti dalle segreterie di partito, e non provengono dal basso o dalla base elettorale, e sono perciò distanti dalla realtà e dalle necessità concrete di carattere socio-economico dei territori, ma sono invece perfettamente allineati con i dettami dei leader di partito, votati al consenso e al mantenimento del potere immediato, anziché alla reale volontà di costruire e portare benefici ai cittadini nel medio-lungo termine.

Tutti questi fattori, unitamente alla scarsa fiducia dell’elettorato nell’intera classe dirigente del nostro Paese, che non rispetta quanto promette e spesso si muove completamente contro alla volontà della collettività nazionale o regionale, per tener fede ai vincoli atlantici ed europei, come nei casi dell’Ucraina e di Gaza sul piano internazionale o della rimodulazione dei fondi del PNRR su quello interno, hanno fatto sì che i cittadini si distanziassero sempre più dalle urne. 

Il segnale anche in questo caso è forte, ma qui, non verrà recepito, poiché il “non voto” non porta a nulla, in quanto nessun partito e nessun governo trema di fronte ad una bassa affluenza, e anzi, così facendo si lascia che una piccola minoranza decida del futuro di tutti. La soluzione non è semplice ed è ben comprensibile chi non crede più nella politica, tuttavia bisognerà ripartire dal basso e dalla consapevolezza che soltanto partecipando attivamente e creando una coscienza collettiva di cittadini che parta dalle province, passi dalle regioni e arrivi fino alla nazione, che potremo tornare a credere nel futuro e nella politica. 

Il caso Verona

In questa tornata elettorale è emblematico il caso di Verona: la nostra provincia è da sempre subalterna nelle dinamiche di potere regionale, concentrate nel triangolo Padova-Venezia-Treviso, che ha espresso anche questa volta il neogovernatore Stefani, che è appunto padovano. Verona rimane ai margini, perdendo così investimenti ed opportunità, che nel quindicennio di Zaia si sono concentrati ad est, come la Pedemontana, il passante di Mestre, l’aeroporto di Venezia, l’aeroporto di Treviso, l’interporto di Padova, l’ospedale di Treviso e così via.

Inoltre non è un caso che tutti i consiglieri regionali eletti a Verona siano concentrati nell’est e nel sud della provincia, lasciando scoperta l’intera zona del Lago di Garda, della Valpolicella e della Valdadige, a riprova, che più ci si allontana dal centro di potere regionale e più si resta esclusi, segno inequivocabile della mancanza di coesione e di rappresentanza politica di intere zone della provincia.

L’auspicio è che, adesso, almeno nella scelta degli assessori e nella composizione della giunta, Verona riesca a contare, lasciando da parte i personalismi, facendo un po’ di sana autocritica e puntando finalmente al bene del territorio, per costruire un futuro nel quale la nostra città e la nostra provincia non sia più esclusa dai tavoli che contano e dalle grandi decisioni, ma sia protagonista in Veneto.