Il Veneto fa non è una regione per donne. E le veronesi guadagnano quasi il 30% meno dei colleghi uomini. Il gap sale al 37% per le pensionate

(di Stefano Tenedini) Che le donne siano retribuite meno degli uomini è una realtà da anni nota e mai abbastanza criticata. Ma il biasimo non è riuscito a modificare questo stato di fatto, che oltre a risultare una ingiustificabile ed evidente discriminazione danneggia tutta l’economia e la società. A parità di formazione scolastica, esperienze professionali e competenze, una donna ha uno stipendio (e quindi una pensione) molto inferiore ai colleghi maschi. Lo confermano i dati più recenti elaborati e raccolti in base alle dichiarazioni dei redditi dal Caaf della Cgil per il Nord Est. Su un campione di quasi 287 mila Modelli 730 (tra dipendenti, pensionati e altri inquadramenti), risulta che in tutte le province venete il divario supera il 30% a sfavore delle dipendenti e sfiora il 40% tra le pensionate. Il gender pay gap colpisce tutto il territorio in varia misura, da un minimo del 29,2% di Belluno al massimo del 34,1% di Venezia. Tra i pensionati la minore disparità si registra a Rovigo con il 34% e la più alta a Vicenza con il 44,8%. La media veneta del gap è del 31,1% tra le dipendenti e del 38,9% tra le pensionate.

Magra consolazione per Verona, il divario retributivo per genere è inferiore al dato medio regionale: il 29,4% colpisce chi ha un impiego e il 37,2% chi è già in pensione. Per quanto riguarda il reddito percepito, sono donne il 75% dei dipendenti veronesi che guadagnano meno di 10 mila euro l’anno. Man mano che si sale nel reddito la componente femminile si riduce: nella fascia 10-20 mila euro annui le donne sono il 65%, mentre nella zona 20-30 mila sono il 41%. Una presenza che scende al 31% nella fascia 30-40 mila euro annui e si contrae al 25% oltre i 40 mila euro. In sostanza, gli stipendi più alti vanno per tre quarti agli uomini. Effetto, secondo la Cgil, della marcata sottoccupazione e a un salario inferiore del 35% rispetto agli uomini come media complessiva, con punte fino al 50% per le posizioni di vertice.

La ricerca mette in luce altri due fattori di squilibrio: da un lato la precarietà e dall’altro la scarsa qualità del lavoro. È vero che dopo la crisi del 2008-2009 il tasso di occupazione femminile il Veneto è tornato a salire fino a raggiungere il 59% di fine 2019 (tra i più alti in Italia, anche se lontano dal 76% maschile), ma la crescita ha riguardato i settori congiunturalmente più deboli ed esposti, messi in ginocchio nel primo semestre 2020 dall’esplodere della pandemia e con rischio che questo possa preludere a una nuova perdita di occupazione. Non a caso il Patronato Inca Cgil ha rilevato che il 60% delle richieste di bonus inoltrate per le difficoltà del settore turistico è arrivato da donne, e gli stessi posti di lavoro persi durante l’emergenza sanitaria hanno colpito soprattutto donne e giovani. Ultimo dato, il congedo parentale per il Covid è stato chiesto per il 79% dalle donne, ma ha coperto solo il 50% dello stipendio.

“L’analisi dei dati conferma che il Veneto non è una regione per le donne – ha commentato il segretario provinciale della Cgil di Verona, Stefano Facci -. E le donne sono solo le prime vittime di una criticità nota e finora mai affrontata, che investe sempre più gravemente anche le nuove generazioni: lavori poveri e precari che si traducono in una condizione di crescente fragilità esistenziale ed economica. E questo segna la vita delle persone e le espone, soprattutto gli anziani, a rischi non solo di solitudine ma anche di marginalità sociale”.

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