La proposta di legge di insegnare il veneto a scuola? Può far sorridere, ma ha un significato più profondo di quel che sembra

(di Paolo Danieli) Può far sorridere la proposta di legge del deputato padovano Massimo Bitonci e di altri 18 leghisti che vorrebbe che il dialetto veneto venisse insegnato nelle scuole di tutta la Regione. Ma è una cosa seria. Ratio della proposta è che il veneto venga inserito tra le lingue delle minoranze etniche tutelate dall’articolo 6 della Costituzione, come l’albanese, il tedesco, il ladino e il francese, modificando la legge 482/99 che le tutela.
La presente proposta di legge – recita il documento parlamentare– inserisce quindi la lingua veneta tra le lingue minoritarie” e stabilisce “l’obbligatorietà dell’insegnamento nel rispettivo territorio regionale“. Sarebbe poi cura della Regione concordarne le modalità col Ministero dell’Istruzione.
La proposta prevede anche che la Regione sottoscriva “accordi con la società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo e con le emittenti radiotelevisive locali, anche a tal fine appositamente costituite, per la promozione di trasmissioni giornalistiche e di programmi generali in lingua minoritaria”. Se fosse accolta -cosa molto improbabile- a Rai 3 si potrebbe ascoltare il telegiornale in veneto.
Si tratta quindi di un’iniziativa legislativa che non si limita alla scuola, ma che s’inquadra in un più ampio disegno politico di carattere autonomista. 
Alcuni la prendono sul ridere. Ma sbagliano. In realtà questa proposta è riconducibile a tutto un filone politico- culturale che tende a salvaguardare le identità e le culture dei popoli. Tutti i popoli. Perché il bello dell’umanità sta proprio nelle diversità, che vanno conservate e valorizzate nel rispetto reciproco. E allora perché non preservare anche l’identità del popolo veneto, a cominciare dalla lingua che parla? La chiamano dialetto, un po’ per sminuirla. O per ignoranza. Ma in realtà è una lingua. Il Veneto, come alcune parlate delle penisola italiana, è una lingua neo-romanza che si è sviluppata dal latino. Esattamente come l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese. Con la sola differenza che ad essa oggi non corrisponde un’entità statuale. Oggi, perché c’è stata per molti secoli, fino al 1866, anno di annessione del Veneto al Regno d’Italia.  Se poi si considera che per “fare gli italiani” come disse Massimo d’Azeglio all’indomani dell’unificazione, l’italiano, lingua ufficiale del Regno, venne spinto in ogni modo per soppiantare la parlate locali, considerate un ostacolo al processo unitario, si capisce perché il veneto è stato definito col termine di dialetto e non di lingua. Rango che invece spetta ad una parlata quando, oltre ad essere usata con continuità nel tempo da un congruo numero di persone esprime anche una letteratura e altre forme espressive. 

Bitonci, come gli altri 18 deputati che hanno firmato la proposta di legge sanno benissimo che l’italiano nell’ultimo secolo s’è imposto come lingua comune di tutta la nazione e non è sostituibile dal veneto. Come sanno che l’inglese è stato imposto come lingua internazionale. Ma la sua proposta ha il significato di non cancellare le tradizioni e l’identità di un popolo, messe in serio pericolo dalla globalizzazione. E’ la logica del glocal’ che deve entrare nella testa della gente e dei legislatori. Che è la consapevolezza della necessità di riequilbrare con il local’ la globalizzazione per non esserne travolti, come sta accadendo. E’ in questa logica che va letta la proposta Bitonci, considerando l’italiano la lingua della scuola, l’inglese la lingua del lavoro e il veneto…la lingua del cuore.

 

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