Recensione: L’Aida di Verdi al Teatro Filarmonico

(Di Gianni Schicchi) Con trecento posti e solo otto metri di boccascena, Franco Zeffirelli decise nel 2001, di allestire a Busseto per il centenario verdiano, la più maestosa e monumentale delle opere del compositore di Roncole: Aida. Una messa in scena giudicata impossibile sulla carta, soprattutto a causa della sua famosa e spettacolare scena del trionfo, eseguibile solo in grandi spazi (Arena di Verona docet). Eppure Zeffirelli creò forse il più riuscito e felice spettacolo d’opera della sua lunga carriera, dove tutto era visto come attraverso una lente d’ingrandimento, ma dove non sfuggiva un solo battere d’occhio ed un gesto. L’impatto emozionale della delicata, struggente storia d’amore, terminò in un trionfo colossale, finendo anche incisa in dvd.

Quella piccola Aida è tornata riproporsi in questi giorni al Teatro Filarmonico (dove è stata data una sola altra volta, però in forma di concerto), nella regia di Stefano Trespidi, con la direzione dello stesso concertatore del 2001, Stefano Maestrelli, i magnifici costumi di Anna Anni ripresi da Lorena Marin, le luci di Paolo Mazzon e le coreografie di Luc Bouy. L’imperdibile occasione di rivivere le atmosfere da kolossal disegnate da Zeffirelli, fanno leva, necessariamente, sull’immaginazione tramite la composizione di magnifici tableaux che rimandano all’Egitto grandioso in cui si consuma l’amore impossibile della principessa etiope per il comandante dell’esercito egizio che la tiene prigioniera con il suo popolo.

Prima conseguenza di questa Aida (abbiamo visto la recita di venerdì 17 febbraio) è stata naturalmente quella di un tessuto musicale più leggero: un aspetto che forse ha tolto qualcosa alla magnificenza della partitura, ma che gestito con una certa intelligenza da Stefanelli, ha comunque restituito i caratteri complessivi della parte strumentale. Un limite che insomma che faceva parte del gioco, ma che è divenuto poi virtù nel terzo e quarto atto, quando lo scavo psicologico operato sui personaggi – oggetto principale di questa lettura – ha toccato le corde più intense.

Infatti, il grande pregio di questa edizione è stato l’aver saputo proporre l’amore drammatico di tre giovani, credibili nei loro ruoli e incarnati da Monica Conesa, una protagonista passionale ed intensa, che al termine del terzo atto ha inanellato uno splendido do nell’aria dei “Cieli azzurri”, seguita da Ketevan Kemoklidze, un’Amneris profonda e viscerale e da Sergio Escobar, un Radames convincente nel suo mutare il desiderio di gloria nell’amore per la bella etiope. Al tenore spagnolo, giunto “in emergenza”, andrebbe assegnato anche un elogio speciale per aver sostituito all’ultimo minuto ben due colleghi indisposti e senza poter provare adeguatamente la parte.

Una caratterizzazione dell’opera, quindi certamente struggente e drammatica, ma anche tenera a tratti, che ha trovato nella vocalità affidabile dei tre cantanti il mezzo espressivo adeguato. Tra gli altri artisti impegnati, da citare un superbo Youngjun Park per il ruolo di Amonasro, Antonio Di Matteo per quello di Ramfis e il veronese Romano Dal Zovo per quello del Re, con Riccardo Redos, il Messaggero e Francesca Maionchi, la Sacerdotessa. Prova apprezzabile del Coro della Fondazione Arena guidato dal maestro Ulisse Trabacchin, mentre di gran classe si è rivelato l’intervento della prima ballerina Elena Andreoudi. Teatro con qualche vuoto in platea, ma con pubblico che ha però accolto con insistiti applausi tutti gli interpreti

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