(di Stefano Tenedini) Le aziende non muoiono solo di lockdown, di recessione o di concorrenza. Soffrono e alla fine cedono anche perché non sanno oppure non possono innovare, cambiare, evolversi. Perché non valutano i danni della mancata formazione, di una tecnologia obsoleta, di rifilare ai propri clienti un servizio scadente, dell’inaffidabilità. Perché da italiani tolleriamo che lo Stato sia esoso e puntuale quando si tratta di incassare le tasse, però sordo e lento se si tratta di fornire le infrastrutture necessarie alla crescita.

Nei giorni scorsi abbiamo scritto che le aziende veronesi guardano con molte aspettative a una ripresa della produzione in Germania, perché in molte sono legate a filo doppio all’economia tedesca. E non siamo né una dependance né una colonia, perché essere integrati e interconnessi con un sistema così forte è un elemento di traino anche per il nostro. Lo dimostra la ricerca realizzata dalla Camera di commercio Italo-Germanica in collaborazione con l’Università di Verona, da cui emerge la crescente partnership con i vicini del nord. Che è vecchia di secoli e anno dopo anno è cresciuta adattandosi ai mercati.

Dalla ricerca, cui hanno contribuito Vania Licio e Angelo Zago, due docenti di International Industrial Policy, emergono sia dati decisamente interessanti sul valore concreto del tandem Verona-Germania che indicazioni fondamentali per capire (valutando quali imprese locali entrino in orbita tedesca, e perché) come sviluppare e replicare un modello che viene visto come vincente, oltre che per migliorare l’attrattività complessiva dell’economia veronese.

I dati presi in esame dalla ricerca confermano la costante crescita dell’import-export con la Germania. In Italia il Veneto è secondo solo alla Lombardia e ha tre province tra le prime dieci del Paese, compresa Verona (che è decima). Gli investimenti tedeschi in regione riguardano l’apertura di nuovi insediamenti (greenfield) e l’acquisizione di imprese già presenti (brownfield), e sono una buona fetta delle oltre 3000 operazioni degli ultimi dieci anni. Il dato critico è che siamo stati più comprati che compratori, il che conferma l’ancora limitato richiamo del tessuto produttivo veneto.

Ma veniamo al dettaglio del matrimonio d’interesse (e ci mancherebbe!) tra Veneto e la Germania. Verona è l’area più rappresentata della regione, quasi doppiando Padova e Vicenza. A desiderarci come Romeo con Giulietta invece è in pratica tutto il sud-ovest della Germania: in testa Renania Settentrionale e Westfalia, seguita da Baviera e Baden-Württemberg. Tra i settori dominano macchinari e impianti meccanici, poi l’elettronica, la moda e abbigliamento e l’agroalimentare. Gli addetti sono in costante crescita e mediamente giovani. Tre aziende tedesche su quattro investono in R&S una fetta dal 6,6% al 15% del fatturato, anche in partnership con università ed enti di ricerca.

Il primo elemento che spinge le società tedesche a volere una sede all’ombra dell’Arena è il nostro sistema logistico e infrastrutturale, cresciuto grazie alla invidiabile posizione geografica. Ci sono poi l’accesso alle tecnologie avanzate e la presenza di aziende qualificate nel settore focus. Tutto questo, unito alla solida tradizione manifatturiera, ci rende laboratorio ideale per sviluppare la digitalizzazione della produzione come ulteriore vantaggio competitivo. E già questi fattori di eccellenza dell’impresa veronese ci spiegano cosa dovremmo fare: Funzionano? Insistiamo. Rafforzarli, valorizzarli e promuoverli darebbe al sistema locale maggiore appeal e più resilienza contro le crisi future.

Ma c’è un rovescio della medaglia, rappresentato dalle imbarazzanti barriere all’insediamento di nuove aziende e allo sviluppo di quelle esistenti. Elementi di debolezza strutturale comuni a tutto il Veneto e insormontabili nel sistema Italia. L’elenco è lungo e triste: mancanza di incentivi mirati all’innovazione, il diritto del lavoro ancora troppo ingessato (a scanso di equivoci: un danno sia per le imprese che per i lavoratori), la lentezza della giustizia amministrativa, l’eccesso e l’instabilità dell’incidenza fiscale, la scarsa competitività dei prezzi. Da aggiungere “la difficoltà di inserirsi in associazioni di categoria e cluster di settore”. Poi non lamentiamoci se dicono che siamo il Paese delle caste.

Un tempo, una ventina e passa anni fa, gli imprenditori si lamentavano delle condizioni “fuori dai cancelli delle fabbriche”, facendo intendere che se tutto funzionava era merito dell’azienda, ma se non girava bene la colpa era dello Stato. In parte non avevano torto, ma siamo ancora a quel punto: e ciascuno consideri se in questi decenni siamo andati avanti o indietro. Ma è proprio nel superamento di questi ostacoli, nella ri-costruzione di un ecosistema che non sia ostile alle imprese ma anzi le favorisca, che ci stiamo giocando tutto: l’attrattività, la ripresa, l’occupazione, il benessere, un futuro per le prossime generazioni. La campana dell’ultimo giro è suonata per tutti, ma non tutti la sentono. O peggio: qualcuno la sente, ma non vuole ascoltarla.