(di Stefano Tenedini) Industria che vuole e non può non cambiare, svilupparsi e competere: andare avanti, sempre. Ma anche un’Italia spaventata, divisa e pessimista. Un Paese in altalena, ma con un assoluto bisogno di evolversi e trasformarsi. Dobbiamo affrontare una serie di transizioni che diranno se potremo entrare in un futuro economico, culturale, sociale e globale che potrebbe anche non aspettarci.
Costruita tutta intorno al concetto di transizioni, per l’assemblea di Confindustria Verona questa condizione si riassume in un volto generato dall’intelligenza artificiale: si chiama Giano perché guarda sia al passato che al futuro, e agli imprenditori riuniti a Gardaland fa da Virgilio in un’attualità tra inferno e purgatorio.
Confindustria: cambiare per competere
Perché mentre la geopolitica impatta sulla vita di tutti i giorni delle famiglie e delle imprese (con terrorismo, invasioni, emergenza climatica, costo dell’energia…) è la trasformazione tecnologica che disegna oggi il domani dell’economia e delle comunità. Intervistati da Matteo Caccia di Radio 24 si alternano sul palco per primo il presidente di Confindustria Verona Raffaele Boscaini, poi il manager Franco Bernabè, la giornalista Barbara Carfagna, il presidente di Ipsos Nando Pagnoncelli e a chiudere Emanuele Orsini, da poco presidente nazionale di Confindustria.
“Le transizioni sono importanti ma ancora complicate, come vediamo proprio dal dialogo con il nostro Giano”, dice Boscaini. “Alla fine la AI risulta credibile, ma abbiamo dovuto guidare il processo, e molto. Eppure la sostenibilità tra noi è sempre più presente: guardate questi arredi, sono in cartone riciclabile. Più di due terzi delle imprese tengono già conto della sostenibilità: e per convinzione, non perché devono promuoversi”. Le transizioni sono fra noi, insomma, e altre si aggiungeranno, dice il presidente di Piazza Cittadella. Il nostro modello di sviluppo regge ancora, in un mondo che è già meno globalizzato? E siamo pronti a usare al meglio le tecnologie? E non dovremmo ripensare le basi stesse della società, considerato che le transizioni modificano e qualche volta arrivano a stravolgere anche i nostri valori?
“Il modello di sviluppo finora sta funzionando, quindi che cosa dobbiamo cambiare? Sono gli eventi e i fenomeni che lo stanno mettendo in discussione”, spiega. “Eravamo un sistema capitalista ma in una logica più liberista: oggi il protezionismo mette in difficoltà anche i partner europei, e l’Europa stessa perde peso e competitività davanti a Stati Uniti, Cina o Africa che aumentano il PIL e la popolazione tanto da ipotizzare un nuovo ordine mondiale. Quindi dobbiamo cambiare per salvaguardare il nostro benessere. Abbiamo sentito Mario Draghi sottolineare che le parole chiave sono cambiare, riformare e decidere. Per noi significa riportare il settore industriale al centro di un mondo che cresce e si modifica. Ha ragione Draghi, ma per arrivare lì ma occorre una politica europea che operi seguendo un pensiero condiviso”.
“Vale a maggior ragione anche per la politica energetica, per la competitività, per l’innovazione: mosse che richiedono di fare scelte precise che in Europa ancora mancano. Ma che gli Stati Uniti ad esempio fanno, investendo 330 miliardi l’anno. I pericoli potenziali sono ovunque: come nelle infrastrutture di reti, sulle quali passano transazioni economiche enormi. In questi campi noi siamo indietro, una terra di conquista, se non addirittura a rischio. Su questo scenario cui il presidente del Consiglio Meloni sta facendo un buon lavoro nel cercare alleanze strategiche e investimenti. E l’Italia può offrire competenze e ricercatori di livello mondiale, sicuramente in un settore del futuro come la salute”. E per Verona? La sua speranza Boscaini la cita in conclusione, auspicando che il sogno esca dal cassetto e si dia da fare: “Penso al progetto Verona 2040, una via per guardare avanti con obiettivi nuovi. Perché Verona può diventare il laboratorio dove mettere alla prova un metodo nuovo per creare davvero sviluppo attraverso la coesione e la responsabilità”.
Di un nuovo Piano Marshall per rimettere in piedi l’Europa parla quindi Franco Bernabé: “Contro la sensazione diffusa di una tragedia imminente, come per l’emergenza climatica, sappiamo di poter trovare la forza e le idee, ma serve anche la volontà. Peccato che di tutto il piano Draghi i giornali si siano concentrati sugli 800 miliardi necessari per rilanciare l’Europa. Il problema principale che va preso in considerazione è che la burocrazia non rallenta solo gli imprenditori, ma l’intero sistema produttivo e l’Europa stessa. La transizione energetica non è sbagliata”, conclude, “ma non si può correre avanti senza riflettere sugli effetti negativi. Con l’elettrico per l’automotive si tratta di un cambiamento epocale. Che però come tutti i rischi va affrontato senza affrettarsi”.
Digitale, se il paradosso diventa l’energia
Barbara Carfagna affronta le frange avanzate della tecnologia più innovativa, di cui oggi la AI è solo l’aspetto più evidente. Oltre i laboratori che sfornano progetti futuribili, ci sono già Paesi, e lo ha spiegato utilizzando gli esempi di Paesi come l’Arabia Saudita o Singapore, in cui lo sviluppo si basa su visioni alternative. Un ecosistema ancora poco evidente, ma di cui si dovrà parlare, visto che paradossalmente tecnologie nate per farci risparmiare energia e salvaguardare l’ambiente stanno già costando moltissimo in termini di consumi per alimentare le piattaforme. “E anche l’Italia è presa in pieno in questo paradosso: da un lato cerchiamo investitori per sviluppare la nostra competenza digitale, dall’altro abbiamo poca energia e la paghiamo tantissimo”. Quindi ci vorrebbero nuovi impianti nucleari, o almeno aggiornare e riaprire quelli prima fatti e poi fermati. Domanda: dobbiamo investire spingendo di più o alzando il piede dall’acceleratore per risparmiare, ipotizzando che la AI sia una bolla destinata a sgonfiarsi? Ma siamo qui con diverse culture tecnologiche a confronto e pochi big, veri sistemi egemoni dominanti che vanno avanti a prescindere dai governi.
Accompagnato da numerosi grafici, da buon sondaggista, Nando Pagnoncelli consegna alla platea di Confindustria inquietudini e mal di pancia. “Come sta reagendo il nostro Paese alle transizioni? Negli ultimi trent’anni abbiamo vissuto molte crisi, con cambiamenti che possiamo definire antropologici”, esordisce, passando poi a contare le caratteristiche italiane. “Un divario tra dimensione individuale e identità sociali che vengono scelte, più che ereditate: prendiamo alcuni tratti ma ne rifiutiamo altri. Ci sopravvalutiamo, tanto che quando parliamo di meritocrazia pensiamo a noi stessi. E tramontano le subculture: ci si riconosceva in un modello e nei suoi tratti, mentre il moderno “io” è frammentato e incoerente con se stesso. Obbedienti a un codice della strada individuale, infatti ce la prendiamo con gli altri: esponiamo la bandiera della pace ma litighiamo spesso nelle assemblee di condominio; facciamo volontariato eppure evadiamo le tasse…”
L’allarme sociale si espande quindi per Pagnoncelli come in una distopia: non abbiamo le idee chiare e la percezione vale più della realtà, incidendo sulle scelte. Tutto questo si somma ai grandi cambiamenti strutturali e genera profonda sfiducia verso la rappresentanze (soprattutto politiche), spinge a dare giudizi negativi sulla situazione economica, diffonde la sensazione di declino, agggrava i problemi. E quasi nessuno, tranne pochissimi, conosce i nostri record: siamo il secondo Paese europeo per la manifattura e il quarto Paese esportatore al mondo. Avevamo l’occasione del Covid per rendere stabile il valore degli interessi collettivi, la fiducia nelle istituzioni o la rivalutazione delle competenze. Ma l’abbiamo persa. Anche il PNRR è noto a pochi, risaltano più le difficoltà delle opportunità che offre. L’Italia recente ci propone una tendenza impossibile da fermare, anche se ci sta portando alla crescita demografica zero e alla possibile totale scomparsa della nostra popolazione.
A raccogliere nelle conclusioni le bandiere sudate e impolverate non può che essere il presidente di Confindustria Emanuele Orsini (“le tocca”, sembra confortarlo Matteo Caccia). E il leader di Viale dell’Astronomia, eletto la scorsa primavera (a questo link l’articolo del nostro giornale su come si è arrivati alla sua nomina) non sembra temere il confronto con una macro crisi che è la somma di tante storture cresciute in casa nostra o importate dall’estero. “Prendiamo la AI: non è che l’Italia sia proprio il campione di questa transizione. E anche l’Europa non sta dimostrando di saperla governare in modo equilibrato, cioè senza danneggiare il tessuto imprenditoriale. In un mondo così competitivo il rischio”, conferma, “è farci molto male. Se noi valutiamo l’importanza della responsabilità sociale mentre altri Paesi o continenti non lo fanno, anzi, ci mettono in difficoltà, allora tocca all’Europa ripensare meglio a questa dannosa corsa in avanti”.
“L’Europa ripensi queste corse in avanti”
Orsini chiarisce questa sfiducia in Bruxelles con un esempio oggettivamente suggestivo: “Perché dobbiamo rinunciare a usare i combustibili alternativi per puntare tutto solo sull’elettrico? Come se avessimo buttato via i gettoni telefonici prima di aver inventato i cellulari. E lo stesso problema ce l’abbiamo con l’energia: è davvero credibile pensare di contare solo sulle rinnovabili per far andare industrie, lampadine e automobili? Ovviamente no, eppure questa sarebbe la richiesta”. La risposta alla domanda implicita di Orsini (dove prendiamo l’energia che ci serve e quanto costerebbe) è “nel nucleare, e il prima possibile”.
Ma è solo l’inizio di un ragionamento che porta lontano. Vuol dire “restituire spazio alle energie delle imprese, dialogando con la politica e con chi al governo deve prendere le decisioni. Perché è esattamente quello che ci chiedono gli imprenditori per tornare a competere”, aggiunge. “Abbiamo già dato la nostra disponibilità per un confronto sull’ipotesi di stralciare 10 miliardi dai 120 di fiscal expenditures”: insomma crediti, detrazioni, esenzioni e… sì, esatto, bonus. Miliardi che con un gesto di collaborazione le imprese potrebbero mettere sul piatto della manovra per favorire una crescita degli investimenti strutturali. “Crediamo che questa sia la strada migliore per rendere più veloce la nostra economia industriale”, ma anche, è la sintesi, per risultare più attrattivi rispetto a chi ci osserva da fuori e potrebbe sceglierci come sistema sul quale scommettere. E investire.