(di Gianni Schicchi) Dopo le pagine di Antonio Salieri (con Falstaff) in ricordo dei 200 anni dalla morte, la Fondazione Arena ha voluto iniziare la sua stagione sinfonica 2025 con l’altro musicista a cui Verona dedica l’intero mese di gennaio: Wolfgang Amadeus Mozart. E di Mozart, con una pagina straordinaria come la Messa K 427, nota anche come “Grande Messa”, uno dei massimi suoi capolavori nell’ambito della musica sacra, assieme al Requiem K 626, e come quest’ultimo anch’essa rimasta incompiuta.
Secondo alcuni biografi del musicista austriaco la Grande Messa sarebbe nata per un voto che il compositore formulò se il fidanzamento con Costanza si fosse poi tramutato in un matrimonio a Salisburgo. “La partitura della prima metà della messa, che ancora aspetta di essere completata, è la migliore prova della promessa da me fatta”, scrive Mozart al padre, il 4 gennaio 1783, ma l’opera non fu in realtà mai terminata. Nell’agosto 1783 Kyrie, Gloria, Sanctus e Benedictus, erano ultimati; del Credo invece solo la prima parte e l’abbozzo di “Et incarnatus est”. Mancava invece l’intero Agnus Dei.

Il lavoro fu comunque eseguito a Salisburgo il 6 ottobre nella cappella di San Pietro: Costanza cantò gli assoli per soprano, mentre Mozart avrebbe completato le parti lacunose e mancanti della Messa con brani desunti da altre sue opere. Più tardi, nel 1785, il compositore fece confluire parte della messa nella Cantata Davide penitente K 469 commissionatogli dalla Società dei musicisti per un concerto di beneficenza, la cui traduzione in italiano era stata affidata a quell’abile librettista e uomo di teatro che era Lorenzo Da Ponte.
Come Bach nella Messa in si minore e Beethoven nella Missa solemnis, anche Mozart riprende qui gli stili della musica sacra delle epoche precedenti, quasi a voler ancorare saldamente la sua messa alla tradizione. Attinge a Bach e Händel da lui scoperti e studiati proprio in quegli anni e anche agli italiani, Caldara, Porpora, Pergolesi, scrivendo un “personale summa teologica del sacro in musica” come affermava Giovanni Carli Ballola.
Al Filarmonico il direttore Enrico Onofri – opta per il completamento realizzato nel 1989 dal musicologo Franz Beuer (?) – affronta la partitura scegliendo, anche in ragione delle forze strumentali e corali a sua disposizione, un taglio dall’accento magniloquente e barocco, invece di uno più cameristico che forse tanti avrebbero preferito. Tuttavia un approccio originale e raffinato che non attenua volutamente quella indubitabile componente di grandiosità insita fra le pieghe della partitura.
Però ci convince di più nei momenti raccolti che in quelli dove la scrittura corale e orchestrale si fa più densa. Ottimo il contributo del coro areniano preparato da Roberto Gabbiani (che Gloria fastoso!), per compattezza e omogeneità dell’insieme, mentre tra i solisti si distingue il soprano Gilda Fiume, cui sono affidate le parti più celebri della Messa, a cominciare dall Et incarnatus est, uno dei tanti assolo scritti da Mozart per la voce della moglie Costanza. Una pagina nel cullante ritmo di siciliana, raccolta, serena, delicata, che trasfigura il virtuosismo vocale in estatico lirismo, come nel lunghissimo vocalizzo della cadenza che unisce al soprano tre strumenti “obbligati”, flauto, oboe e fagotto.
La voce del soprano salernitano, dal non eccessivo spessore, suona dolce e penetrante e riesce a coprire con gusto le ampie escursioni della scrittura vocale, particolarmente nelle discese della regione grave della tessitura. A completare il cast, poi i colleghi: Arianna Venditelli, secondo soprano, convincente nel Laudamus te, Krystian Adam, tenore e Adolfo Corrado, basso, che hanno contribuito a restituire tutta la vitalità e la grazia della partitura mozartiana.
In apertura c’era in programma anche la Sinfonia n° 39 di Michael Haydn, fratello minore di Franz Joseph, per anni amico sincero di Mozart, dalla produzione molto vasta, segno di una facilità compositiva basata su studi solidi e un impegno diuturno. La Sinfonia 39 mostra una concezione dello stile sinfonico molto valida e sostanzialmente simile a quella del fratello, in una continuità stilistica che rivela ancora più forza. La scrittura è sempre perfettamente idiomatica per i vari strumenti e Michael pone una cura tutta speciale nel nitore della strumentazione, non esitando ad inserire le trombe e i timpani, per creare un tessuto sonoro più complesso, utilizzando ad esempio i fagotti in maniera indipendenti rispetto alla linea del basso.
La direzione di Enrico Onofri (ordinata ed essenziale l’orchestra areniana) si pone in rilievo soprattutto per la volontà di ricostruire una celebrazione liturgica e musicale che avrebbe potuto essere eseguita nella Cattedrale di Salisburgo. Inoltre il maestro ravennate guarda con estrema cura alla resa puntualissima del dettato musicale, traendone più che contemplazioni spirituali, un’eleganza di fraseggi e dinamiche, una trasparenza di orditi polifonici che non a tutti è dato di ottenere. Senza peraltro mai accodarsi a talune frenesie di tempi e a secchezze di sonorità quali sono talora consuete a letture e lettori di professione filologica. Successo strepitoso nella seconda recita di sabato pomeriggio 1 febbraio, con un pubblico molto numeroso che al termine ha riservato vivissimi e ripetuti consensi.