Il nostro articolo sui profughi di Libia ha spinto lo scrittore Emanuele Torreggiani ha inviarci una propria esperienza personale. Torreggiani ha da poco pubblicato: Il grano cresce la notte. Paesaggi d’amore e di morte Aga editore.
(Emanuele Torreggiani) Anni fa, nel 1992, l’anno in cui furono assassinati Falcone e Borsellino, conobbi un signore che aveva preso in gestione un’edicola a Magenta, limitrofa al mio indirizzo di allora. Un uomo alto, stempiato, immaginavo prossimo ai settanta, mi disse poi, conversando, che stava traguardando i sessanta. Io ne portavo trentaquattro, probabilmente aggrottai le ciglia e lui, cogliendo la mia sorpresa, sorrise.
L’età, mi disse, non sono solamente gli anni, ma la gerla che si porta. Squillò il telefono, un fisso, e prese a parlare fluentemente in arabo. In quegli anni, ormai lontani, l’edicola era succedaneo ai bar, ai caffè e alle osterie. Agli avventori, i giornali si vendevano come pagnotte calde, si fermavano e discutevano i titoli, gli attacchi degli editoriali, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Enzo Biagi, Gianpaolo Pansa, erano cognomi ricorrenti. E lui puntò il dito, riagganciando, indicando Il Giornale. “Solo lui ha scritto della nostra tragedia. Proprio così, tragedia. Solo Montanelli si è preso questo coraggio. Tutti muti e zitti”.
Una storia degli italiani cacciati dalla Libia
E mi raccontò che era un esule libico. Suo padre aveva un’azienda agricola, lui si era diplomato a Bengasi in agricoltura e sviluppo rurale, laggiù si era sposato con una libica, la lingua che usava al telefono, e avevano una figlia che ora studiava medicina a Parigi. Dalla sera alla mattina furono cacciati, letteralmente cacciati, dalla terra, dal lavoro, dalla proprietà per altro florida. Lui aveva quarant’anni. Mi mostrò la mano destra: “I nostri famigli me la riempirono di lacrime quando fummo obbligati a lasciare quella che per me era la mia Patria. La terra dove avrei voluto vivere e morire, com’era morta mia madre e laggiù è rimasta. Mio padre, che era infermo, lo portai in spalla alla nave che ci trasbordò a Roma, Civitavecchia mare. Non avevamo più niente, di là dagli abiti e da qualche effetto personale. Niente. Nudi alla meta.

Alloggiammo per alcuni mesi presso un’opera di religiosi che ci disposero in una stanza. Mio padre, Dio è misericordioso, morì quasi subito. Neppure una settimana dallo sbarco. Sepolto in terra comune, non avevamo il danaro neppure per un cero. Con mia moglie ci siamo arrabattati. Faceva le pulizie negli androni dei palazzi, poiché ha il volto arabo, per così dire, nessuno la voleva in casa. Io lavoravo al porto, a chiamata dei caporali come uno schiavo, e ritornavo il venti per cento della diaria pattuita, al caporale. Ogni tanto capitavano dei politicanti che promettevano risarcimenti. Non ci ho mai creduto. Volevano solo il voto. Niente altro.
Conobbi un uomo, un uomo, che mi prese a lavorare in una sua stazione di servizio, ne aveva una dozzina. Benzina, gasolio, cambio olio, lavaggio… con mia moglie andammo a vivere lì, riattando un locale. E siamo rimasti sino a quattro anni fa quando, morto il vecchio, i figli hanno venduto tutto. Tutte le stazioni, anche quella dove è nata nostra figlia che ora studia medicina a Parigi. È l’ultimo anno. Mia moglie è rimasta a Roma, io sono qui per la mia bambina. Quando avrà finito lascio questa attività. E mi ritiro. Non ci rimborseranno mai niente. Creda a me. Niente. E poi cosa, quanto, come, ci danno di una vita demolita? C’è un prezzo? Non credo” mi disse “No. Non c’è. È andata così”.