(Francesco Corraro) C’è un Regno – immaginario, sì, ma non troppo – dove le regole fiscali seguono traiettorie talmente refrattarie al buon senso da sembrare disegnate apposta per disorientare chi osi cercarvi un filo di coerenza.
Benvenuti ad “Impostelandia”, dove tra le molte virtù che impreziosiscono l’Erario primeggia la capacità -tutta peculiare- di saper modulare un principio apparentemente lineare, come quello dell’inerenza di un costo all’esercizio dell’attività d’impresa, in base al tipo d’imposta da esigere: quasi che l’inerenza non sia una qualità oggettiva dell’esborso, ma una maschera da cambiare a seconda del palcoscenico tributario calcato Eppure, almeno in teoria, l’inerenza dovrebbe accomunare tanto la deduzione di un costo dal reddito d’impresa, quanto la detrazione dell’Iva assolta sulla relativa spesa.
Ma ad Impostelandia, anche le più nobili teorie finiscono, spesso, per essere soppiantate da pratiche ben più fantasiose. Già, perché quando si tratta di imposte sul reddito, i funzionari erariali di questo bizzarro Regno sfoggiano un’inaspettata indulgenza interpretativa: è spesso sufficiente che la spesa sfiori l’utilità aziendale, anche solo in modo riflesso, eventuale o presunto, perché si levi il verdetto liberatorio: “Deducibile!”

Ma quando entra in scena l’Iva, ecco che l’atmosfera si fa improvvisamente cupa: le soglie dell’inerenza si elevano improvvisamente, il tono si fa ieratico e non basta più che la spesa sia utile, opportuna o persino necessaria. No! Occorre che sia ontologicamente votata al profitto. In mancanza, l’anatema è uno solo: «Niente detrazione!»
E fu così che una società, confidando in ciò che credeva essere l’unicità del diritto tributario, affidandosi con sorprendente ottimismo al principio di coerenza dell’ordinamento, finì con l’essere severamente punita.
Quando, infatti, alcuni suoi amministratori, dirigenti e dipendenti furono – con discutibile fortuna – coinvolti in un processo penale per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, la società fece ciò che parve naturale: sostenne integralmente le spese legali per difenderli nel giudizio dal quale, peraltro, vennero pienamente assolti, confidando di poter dedurre il relativo costo e detrarre l’Iva addebitatale in fattura. Mai errore si rivelò più fatale.
Eh sì, perché la contribuente non aveva fatto i conti con gli Inquisitori della Verifica Amministrativa (il cui acronimo è, non a caso, anch’esso Iva), esperti nell’arte di scovare eresie fiscali. Questi la attendevano al varco con sopracciglio alzato e con voce satura di compiacimento dissero: “Deduci pure, se ti consola. Ma l’Iva? No, quella la versi e basta. Bada bene, ciò che è inerente per le imposte dirette non lo è altrettanto per l’Iva”.
“Una distinzione schizofrenica! Un’acrobazia interpretativa!”, protestò sgomenta la contribuente. “Possibile che la stessa spesa, suscettibile di abbattere l’imponibile ai fini delle imposte sul reddito, perda improvvisamente di inerenza rispetto all’esercizio dell’attività d’impresa quando si parla di Iva? Forse, ad Impostelandia, i concetti tributari si confezionano su misura: taglia “small” per le imposte sul reddito, ed “extra-small” per l’Iva?
Non avendo la benché minima intenzione di arrendersi ad un tale paradosso, la società intraprese la sua ascesa lungo la Scala irta della Giustizia. In primo grado, il buon senso trovò ascolto e giudici particolarmente sensibili all’odore acre dell’ingiustizia le diedero ragione.Ma, come spesso accade, quello stesso buon senso, già traballante in appello, fu solennemente congedato con tutti gli onori una volta giunto in Cassazione. Il responso dei Giudici Supremi, chiamati a sciogliere l’enigma dell’inerenza cangiante fu, infatti, perentorio.
Prediligendo una lettura tanto rigorosa quanto formale della norma, sancirono, nella sentenza n. 17113/2025, del 25 giugno 2025, che, ai fini Iva, affinché una spesa possa considerarsi inerente non è sufficiente che il costo afferisca genericamente all’esercizio dell’impresa, ma è necessaria la sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili. E poiché, nel caso sottoposto al loro esame, la “causa” della spesa sostenuta dalla società contribuente per difendere i propri amministratori, dirigenti e dipendenti da un’ingiusta imputazione penale non fu l’attività d’impresa da questa esercitata, bensì l’iniziativa – infondata, certo – della pubblica accusa, la detrazione fu negata in nome di un diritto che si fa forma anche contro la logica ed in cui il principio dogmatico e la purezza concettuale prevalgono sulla sostanza economica.
A nulla valse neppure evidenziare che l’assoluzione degli amministratori, dirigenti e dipendenti aveva determinato, quale conseguenza immediata e diretta, la non configurabilità di una responsabilità amministrativa ai sensi del D.lgs. n. 231/2001 in capo alla società stessa e che, dunque, i costi da questa sostenuti per la loro difesa in giudizio avevano senz’altro apportato un’utilità diretta all’esercizio dell’attività d’impresa. Nulla. Nessuna apertura. Nessuna flessibilità. La scure dell’indetraibilità era ormai calata, netta ed inesorabile.
E, purtroppo, non era ancora finita qui… Messa all’angolo, con la logica in frantumi ed il portafoglio alleggerito, alla società contribuente non restò che un’ultima, flebile speranza: invocare, quantomeno, la clemenza del tempo. Chiese, infatti, di beneficiare almeno delle nuove e più miti sanzioni previste dal D.lgs. n. 87/2024, una normativa che riconosceva implicitamente l’eccessiva severità del precedente regime punitivo.
Ma la risposta dei Giudici Supremi fu l’ennesimo epitaffio beffardo sulla tomba del buon senso:“un’ottima legge, non c’è che dire. Ma ha un piccolo difetto: funziona solo per il futuro. L’errore è stato commesso nel tempo sbagliato. Peccato”.
Il principio di Favor Rei, quel gentiluomo del diritto che impone di applicare la legge più favorevole, trovò, dunque, le porte del Regno sbarrate da un dogma temporale consacrato nell’art. 5 della nuova legge, ritenuto perfettamente compatibile con ogni Carta dei Diritti esistente.
Per la società contribuente la lezione fu, allora, duplice: non solo apprese che ad Impostelandia un costo può essere intrinsecamente legato all’esercizio dell’attività d’impresa per un’imposta e diventarvi completamente estraneo per un’altra, ma imparò anche che una sanzione, pur riconosciuta eccessiva dal legislatore stesso, continua a colpire chi ha avuto la sfortuna di incapparvi prima di una data segnata sul calendario.
E così, il sipario calò, lasciando la contribuente a meditare su un sistema dove la forma non è solo sostanza, ma anche tirannia.