(Emanuele Torreggiani). Preciso, nitido nei contorni e struggente nella prospettiva il volto di Paolo Borsellino. Scolpito dal selvaggio dolore della vita, parla suggendo la sempiterna sigaretta. Millenovecento novantadue, la prima settimana di luglio. Giovanni Falcone, con i suoi, attende sottoterra le prime piogge d’autunno. Quel giorno Paolo Borsellino parla in conferenza stampa, è la prima settimana di luglio, la terra bolle, Palermo, un salone da qualche parte del tribunale blindato.

Suonano le cinque della sera, l’ora dell’encierro per scrivere rammentando il Federico Garcia Llorca. Le cinque in punto della sera. Il salone è una calca: giornalisti di fama, televisioni, politici di mezza tacca con l’immancabile tessera in sacoccia (e quando mai avessero poi scritto un pezzo solo Dio lo sa, forse) e damazze che respiravano il brivido di vedere un uomo la cui vita era scortata ogni istante, poliziotti in borghese con la ferraglia che gonfiava loro completi a buon mercato, gli occhi mobilissimi infossati dal bisogno di gran sonno, dal gran sgomento d’affanno: un dipinto di Renato Guttuso. S’udiva lo sciabordio in corso di sirene, lo stridio di pneumatici e motori imballati.

Entrò, inscritto in un manipolo di uomini. Le spalle un poco curve, la sigaretta accesa in permanenza effettiva. Parlò da siciliano colto, diceva le cose un poco meno delle cose lasciando però intuire in modo preciso, concreto e definitivo il suo pensiero: “la mafia si reprime con la legalità”. Rispose così ad un giornalista che domandava gli sviluppi sulla “guerra alla mafia”, intendendo, con la sua risposta, che lo Stato non fa la guerra ma rappresenta la legalità e la mafia il crimine; e la legalità è la cultura dello Stato. Parlava monotono con uno spiccato accento palermitano. Aveva, per come guardava i volti in sala, la consuetudine con la morte. Quindi esprimeva con cura ogni parola. Mille mani si spellavano tra le quali quelle dei politici di mezza tacca che l’avevano già tradito da mille anni e lo tradiranno, lui e tutti gli altri come lui, per altri mille anni. L’ammazzarono pochi giorni appresso. Il 19 luglio. Cinquantasette dopo Giovanni Falcone. L’ammazzarono con tutti i soldati della scorta che per l’opinione pubblica sono militi ignoti. E poi? Poi siamo daccapo. E lo saremo ancora tra mille anni. Come l’applaudivano al suo funerale ce lo ricordiamo bene, e c’era solo da stare in silenzio sotto il carico dello schifìo di vergogna.