( g. d.) Nella petizione “Per politiche di cura e non di repressione. Verità e giustizia per Moussa Diarra” promossa da:
Idrissa Bouné, presidente dell’Alto Consiglio dei Maliani in Italia
Ilaria Cucchi, senatrice della Repubblica
Mimmo Lucano, europarlamentare
Luca Casarini, fondatore di Mediterranea Saving Humans
Peppe De Cristofaro, senatore della repubblica
Francesca Ghirra, membro della Camera dei deputati
Marco Grimaldi, membro della Camera dei deputati
Pierpaolo Capovilla, cantautore
Roberto Leone, docente Università di Verona
Donata Gottardi, docente Università di Verona
Carlo Piazza, psichiatra
Jessica Cugini, consigliera comunale di Verona
Alberto Sperotto, attivista in campo ambientale e sociale
Ivan Salvadori, docente Università di Verona
Francesca Gomez, psichiatra
don Marco Campedelli, teologo e narratore
Andrea de Manincor, animatore teatrale e drammaturgo
don Paolo Pasetto, co-fondatore delle comunità di accoglienza dell’est veronese
Laura Testa, pastora valdese
Gloriana Ferlini, maestra di teatro
ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – Verona
ARCI di Legnago
ARCI YANEZ – Verona
Azione Comunitaria
Chiesa Valdese – Verona
Circolo Laudato Sì Verona Est
Comunità cristiane di base – Verona
Comunità maliana – Verona
Cooperativa sociale “Hermete”
Donne in Nero – Verona
Faso Yeredon – associazione multiculturale – Verona
Federconsumatori – Verona
Il Mondo di Irene
Laboratorio autogestito Paratod@s
Laici Missionari Comboniani – LMC
La Fraternità
MAG – Mutua per l’Autogestione Cooperativa Sociale
Mediterranea – Verona
Osservatorio di comunità, ricerca e azione per i diritti e i doveri sociali
Osservatorio Migranti – Verona
PINK LGBTE – Verona
Possibile – Verona
Progetto Mondo ONG
Radici dei Diritti
Rete degli Studenti Medi – Verona
Rete Radie’ Resch (associazione di solidarietà internazionale)
Rifondazione Comunista – Verona
Sbarre di Zucchero APS
Sinistra Italiana – segreteria nazionale
Sinistra Italiana – Verona
Sulle Orme
UDU – Unione degli Universitari – Verona
si legge quanto segue:
“Moussa aveva solo 26 anni quando è stato ucciso, e portava addosso i segni di una vita già pesante di abusi e sofferenze. Nel 2014 aveva lasciato il Mali, non solo per cercare di mantenere la sua famiglia, ma anche a causa degli attacchi dei gruppi jihadisti ai villaggi della sua area. Sopravvissuto all’inferno della Libia, nel 2016 era approdato in Italia e destinato ad un centro di accoglienza straordinaria. Ottenuto il permesso di soggiorno, aveva cominciato a svolgere lavori precari e ad inviare soldi alla sua famiglia. Non riuscendo a trovare una stanza in affitto (come ormai capita a decine di migliaia di migranti che lavorano, soprattutto nelle città affette da over-turismo), dal 2022 abitava in una casa occupata insieme ad altri quaranta giovani uomini nelle sue stesse condizioni.
Il 20 ottobre 2024, alle sette di mattina, all’uscita della stazione di Verona Porta Nuova, Moussa Diarra veniva ucciso da un colpo di pistola sparato ad altezza d’uomo da un agente della Polfer. Il ministro Salvini, poco dopo, pubblicava sui social un post affermando “Non ci mancherà”.
A cinque mesi dalla sua morte, c’è ancora il buio assoluto su cosa sia davvero successo al momento della sua uccisione. Sembra che Moussa da un paio d’ore si aggirasse per la città in forte stato confusionale, ma in questo caso ci sarebbe stato bisogno di un’ambulanza, non di una pistola mirata al cuore. La spiegazione fornita nell’immediatezza attraverso un comunicato congiunto della Procura e della Questura (l’agente avrebbe sparato per legittima difesa) non ha trovato finora alcun riscontro. Per questo sono stati nominati periti di parte civile oltre ad un team di avvocati ed avvocate. Sarà una lunga e complessa battaglia legale, come tutte quelle che vedono lo Stato e soprattutto le forze dell’ordine sul banco degli imputati. Ad oggi, gli avvocati delle persone offese, cioè dei familiari della vittima, non hanno ancora potuto vedere l’esito delle perizie d’ufficio e le immagini delle telecamere.
Chiediamo quindi alla Procura della Repubblica di Verona di porre gli avvocati e i periti delle parti offese nelle condizioni di svolgere al meglio il loro lavoro. Chiediamo un’indagine rigorosa e un processo serio e trasparente che accerti la verità, al di là di tutte le narrazioni tossiche riportate da alcuni media locali.
Chiediamo alle istituzioni locali, regionali, nazionali ed europee, di realizzare politiche di cura che garantiscano la vita, la dignità e la sicurezza delle persone più vulnerabili. Chiediamo politiche e servizi pubblici per la salute mentale. Chiediamo, nei confronti dei migranti e delle persone senza dimora, politiche inclusive e non discriminatorie e criminogene.
Se Moussa Diarra non avesse avuto alle sue spalle una comunità che lo aveva accolto e supportato, e che oggi si sta battendo per ottenere la verità sulla sua morte, la sua storia sarebbe finita tra le mille altre vite negate che in questo paese sembrano contare meno e restano racchiuse in un breve trafiletto in cronaca. Per questo pensiamo che chiedere verità e giustizia per Moussa sia un impegno sociale e collettivo necessario, un segno di civiltà contro un sistema repressivo ed oppressivo. E per questo chiediamo che cresca e si rafforzi una rete nazionale di sostegno che coinvolga intelligenze e sensibilità diverse”.
Petizione con omissione
Chi legge il lungo preambolo potrebbe pensare che un poliziotto abbia sparato al giovane africano senza alcun motivo, forse perché improvvisamente impazzito o animato da becero razzismo. Il racconto omette del tutto l’antefatto, ovvero che Moussa Diarra si aggirava davanti alla stazione dando in escandescenze impugnando un coltello, atteggiamento che non è propriamente rassicurante né ammesso dalle leggi italiane.
I promotori della petizione si limitano ad accennare che “da un paio d’ore si aggirasse per la città in forte stato confusionale, ma in questo caso ci sarebbe stato bisogno di un’ambulanza, non di una pistola mirata al cuore”. Si guardano bene dal riferire il fatto, non trascurabile ed anzi dirimente, che era armato di coltello e che aveva minacciato i poliziotti.
Un particolare evidentemente del tutto trascurabile, secondo loro. Ma che cambia completamente il senso del loro racconto, che così diventa capzioso e di conseguenza via anche a indebolire il senso della loro petizione.
