(di Gianni Schicchi) La serata inaugurale del Rigoletto, di ieri sera 8 agosto, ha completato il calendario delle opere in programma per questo 102° Opera Festival areniano. Dopo l’esperienza dell’agosto 2023, con la regia di Antonio Albanese e le scene “infauste” di Juan Guillermo Nova, che creavano interruzioni di continuo durante la rappresentazione, si è tornati all’antico con la riproposizione del collaudato allestimento realizzato dal grande scenografo leccese Raffaele Del Savio, che ha ripreso quello storico del 1928 firmato da Ettore Fagiuoli, ricostruendo con grandi apparati scenografici l’ambiente gonzaghesco della vicenda.
L’opera verdiana aveva ieri sera un protagonista inatteso che non figurava nel cast: il francese Ludovic Tézier, una bella sorpresa e artista di fama internazionale, che ha dato lustro all’esecuzione, con un apporto artistico di sicuro rilievo. Tézier ha mostrato di possedere ancora, e in somma misura, il senso non solo del momento scenico, ma della singola parola, resa con un ventaglio di colori e di inflessioni che hanno ben poco di invidiare ai più grandi interpreti della tradizione vocale italiana, col marchio dell’autentico baritono verdiano. Il suo colloquio con Sparafucile ha realizzato alla perfezione il senso di angoscioso mistero in cui dovrebbe essere immerso, grazie al concorso di un Gianluca Buratto, che pari a Tézier sa scavare nel testo rendendolo insinuante, di felina morbidezza, giungendo ad alitare in un sussurro tenebroso quel fatidico “Sparafucile mi nomino”.

La celebre aria “Cortigiani, vil razza dannata” di Tézier ha fatto poi leva non tanto sull’oratoria della prima parte, quanto sulla morbida dolcezza di un “Miei signori” dal legato davvero superbo che ha ricevuto un consistente applauso da pubblico. Di sublime poesia il duetto finale con Gilda, intriso di un dolore tanto più scavato quanto più inciso nella carne viva dei sentimenti e non nella ansimante retorica dell’altisonante. Ottimo canto, dunque, quello di Tézier, ma soprattutto una splendida interpretazione.
Il duetto con Gilda è stato di una dolcezza sconfinata perché Nina Minasyan (rimpiazzava la collega Nadine Serra malata) è una cantante dal timbro squisito, seppure piccolo, in cui la musicalità va di pari passo ad un gusto sorvegliatissimo. Il “Caro nome” del soprano armeno è esemplare per spontaneità e misura, pur nella difficoltà con cui sono state superate le tante insidie esecutive: un gusto valorizzato inoltre da una buona tecnica nel controllare il suono ad ogni intensità e registro, mantenendolo quindi compatto, fluido e morbidissimo in un legato dalla purezza strumentale.

La serata in Arena vedeva anche l’esordio del tenore neozelandese (nato a Samoa) Pene Pati, un duca di Mantova dal fisico prestante ed una voce delle più singolari ascoltate negli ultimi tempi, anche perché il fascino non sta nella voce, che ha chiara, lievemente secca e sostanzialmente anonima, bensì nella trasformazione cui il timbro va incontro per virtù della tecnica. Una tecnica qualificata quella di Pati, per il giusto appoggio della colonna di fiato e il controllo esercitato sull’emissione dello stesso fiato, che gli ha consentito alcune variazioni, con assottigliamenti e rinforzi graduati per fare sembrare enorme una voce di volume invece normalissimo.
Le alternative di dinamica e di spessore che si sono succedute non sono state sufficienti però a valorizzare del tutto la sua prestazione che a volte è sembrata altalenante, con qualche zona d’ombra dovuta forse ad un esordio difficile, davanti ad un’Arena gremitissima e attenta che si è lasciata andare a qualche dissenso. Pati tuttavia ha mostrato una buona capacità di manovrare la proiezione del suono, vigilato poi da una certa musicalità che ha annullato ogni rischio di manierismo in un fraseggio di bella comunicativa oltre che di sorprendente modernità.
Gianluca Buratto è stato quindi un eccellente Sparafucile, preoccupato più di accentare con intelligenza e proprietà il personaggio che di esibire tenebrori da Mangiafuoco. Abramo Rosalen ha stagliato un Monterone imponente con la forza di un registro acuto formidabile, mentre l’esordiente Martina Belli (dal fisico affascinante) è apparsa una Maddalena dalla linea vocale splendida dove l’energia si è fusa mirabilmente col velluto, trovando inflessioni e colori giusti.
La concertazione del giovane Michele Spotti si è mostrata puntigliosa nel realizzare i diversi piani sonori sui quali la scena si articola in un effetto prospettico dove appare evidente la cura profusa da Verdi. Spotti è un direttore che i 32 anni di età non li dimostra proprio per la maturità con cui sa imporre e far rispettare scrupolosamente la scrittura vocale – comprese le cadenze – e i segni di espressione, in un continuo sostegno ai cantanti. L’orchestra areniana ha potuto così esprimersi con una cantabilità quasi sempre incisiva e singolarmente densa nell’impasto sonoro. Roberto Gabbiani ha preparato da par suo il coro maschile impegnato nel commentare l’azione (“Zitti, zitti moviamo a vendetta”) e sottolineare le emozioni dei personaggi.

Il folto gruppo delle parti di fianco è apparso di levatura insolita, con Agostina Smimmero (Giovanna), Francesca Maionchi (contessa Ceprano), Elisabetta Zizzo (Paggio), Matteo Macchioni (Borsa), Nicolò Ceriani (Marullo), Hidenori Inoue (conte Ceprano), Ramaz Chikviladze (usciere). La regia era di Ivo Guerra, i costumi di Carla Galleri e le luci di Claudio Schimid. Sugli spalti, pubblico delle grandi occasioni, con diecimila presenze, molto plaudente e partecipe al termine.
