Un precedente da studiare in Europa
(Angelo Paratico) Saigon cadde il 30 aprile 1975. La repressione e la crisi economica che seguirono spinsero più di un milione di vietnamiti a fuggire, anche perché più di centomila persone furono fucilate senza processo. Anche Tiziano Terzani andò vicino a fare quella fine.
Le immagini di disperati, stipati su barconi in procinto di affondare, fecero il giro del mondo. Ma i media li definirono, con una punta d’ironia i ‘boat people’, la gente dei battelli e pochi presero a cuore la loro disperazione. Basta guardare quelle vecchie fotografie per leggere nei loro occhi tutta la loro disperazione e il loro terrore. Si vedono donne che stringono i propri bambini al petto, ma quanti di loro morirono in mare, divorati dagli squali o annegati? Non lo sa nessuno.

Decine di migliaia sparirono fra le onde o furono brutalizzati e derubati dai pirati, dopo che avevano pagato con il poco oro che possedevano un posto in una di quelle precarie imbarcazioni che affrontavano l’oceano Pacifico. Dapprima furono accolti bene nei paesi vicini, ma a partire dal 1979 il loro numero aumentò e la simpatia finì molto presto.
Una delle loro mete preferite fu la colonia britannica di Hong Kong. Navigavano verso l’isola di Hainan e poi tenevano a sinistra la costa cinese, sfuggendo per quanto possibile alle rapine e alle estorsioni e, i più fortunati, attraccavano fra i grattacieli di Hong Kong.

Nei primi mesi del 1975 gli americani riuscirono a evacuarne circa 140.000, pescando fra i propri più stretti collaboratori, poco prima della caduta del Vietnam del Sud. Ma per rendersi conto del fatto che non riuscirono a portar via tutti basta guardare la celebre foto di Hugh Van Es, che mostra una lunga fila di persone che tentano di entrare in un fragile elicottero posato sul tetto dell’ambasciata americana di Saigon, oppure i filmati che mostrano degli uomini precipitare dai carrelli degli aerei in fase di decollo a Danang, sopra alla celebre China Beach di Apocalypse Now.

A Hong Kong i primi rifugiati sbarcarono il 4 maggio 1975 a bordo della nave danese Clara Maersk, che li aveva raccolti in mare. Erano 3743 e furono rapidamente distribuiti in altri paesi, che li accolsero bene. Ne arrivarono altri ogni giorno fra agosto e settembre, nonostante il pericolo di incappare in tifoni. Nel 1979 scoppiò la guerra fra il Vietnam e la Cina. La Cina e gli Stati Uniti erano contrari a un intervento vietnamita in Cambogia contro i Khmer Rouge, ma per fortuna intervennero e fermarono il genocidio in atto in quel disgraziato Paese. Il presidente Deng Xiao Ping volle dare una lezione agli ex alleati vietnamiti, dicendo al presidente Jimmy Carter, durante una sua visita a Washington, che: “Il bambino è capriccioso, ha bisogno d’una sculacciata”.

L’esercito cinese entrò nel Vietnam del Nord il 17 febbraio 1979, occupò alcune città e il 16 marzo 1979, dopo aver dichiarata aperta la via sino ad Hanoi, fece dietrofront, ritornando in Cina. In termini umani i cinesi pagarono un prezzo altissimo: dai 50-70.000 morti, contro a poche centinaia di vietnamiti ma con quel loro gesto dissero a Mosca che loro, con i satelliti della Russia, facevano ciò che gli pareva. L’attacco cinese, inoltre, mise in grave pericolo la minoranza etnica cinese residente in Vietnam, erano conosciuti come gli Hoa e furono visti come una quinta colonna cinese e perseguitati. Inoltre, la fragile economia vietnamita entrò in crisi e, dunque, una grossa ondata di rifugiati si riversò in mare, provocando una controreazione da parte delle nazioni vicine, come la Tailandia, la Malesia e Singapore che chiusero i confini, impedendo addirittura ai rifugiati vietnamiti di sbarcare.
Hong Kong invece fu dichiarata un porto franco di sbarco e questo fece aumentare il numero di arrivi, soprattutto dopo che la BBC, per via d’un malinteso, annunciò che per 3 mesi a Hong Kong sarebbero stati accettati tutti e poi sistemati in altre nazioni. Questo provocò un picco di sbarchi nel 1980, con 68.700 richiedenti asilo.
Il governo di Hong Kong prese delle energiche contromisure: iniziò a trasmettere continuamente un messaggio radio in lingua vietnamita, per dissuaderli. Questo messaggio proseguì sino agli 90 e molti vecchi residenti di Hong Kong lo ricordano ancora.

Iniziava con la frase bat lau dung laai che significa: “D’ora in avanti…” per dire che la nuova politica del governo di Hong Kong stabiliva il ritorno coatto di tutti i rifugiati. Hong Kong è un arcipelago costituito da 276 isole e isolette su circa mille chilometri quadri di territorio, e su alcune isole furono costruiti dei grossi campi di raccolta, con filo spinato, baracche, bagni e scuole per i bambini. La Cina, infatti, aveva già manifestato l’intenzione di riprendersi Hong Kong nel 1997, per questo disse chiaramente al governo britannico di Hong Kong che quei vietnamiti non li voleva. Si aprirono trattative con il Vietnam per convincerli a riprendersi indietro tutti i rifugiati, con la garanzia che non li avrebbero puniti e perseguitati.
Il governatore di Hong Kong, Sir David Wilson, un raffinato sinologo, diede inizio ai rimpatri forzati nel 1989, fra le proteste delle organizzazioni umanitarie occidentali. Vi furono vari incidenti nei campi, con rivolte e incendi, ma non vi furono mai ripensamenti su quella linea adottata da Wilson, che fu tutto sommato corretta. In certi casi nei campi si usò una durezza eccessiva con quei disgraziati che erano comunque alla ricerca di una vita migliore per sé e per i propri figli. Il campo più grande di Hong Kong era quello di Whitehead, che nel momento di maggior crisi aveva contenuto 40.000 vietnamiti e fu chiuso nel giugno del 1997.
Quel che avvenne dopo la caduta di Saigon può insegnarci qualcosa
La magnitudine del fenomeno immigratorio italiano, ovvero europeo, è senza dubbio maggiore di quello di Hong Kong ma si potrebbe studiare l’esempio di Hong Kong e poi decidere un piano d’azione ad ampio raggio. È infatti evidente che la linea seguita dai nostri governi non è logica e non reggerà nel lungo termine. Non si possono lasciare entrare tutti questi rifugiati, per la gran parte economici, senza controlli e senza verifiche. Certo, una volta in mare bisogna aiutarli: ma vanno dissuasi dal partire e una volta stabilito che non sono dei perseguitati vanno rimandati nel loro paese. Se il loro paese non li riaccetta, bisognerà prendere delle contromisure di tipo economico, incentivandoli a riprenderli e tenerli rinchiusi in un campo, come si fa in Albania.
Non bisognerebbe far giungere messaggi contraddittori, facendo credere che una volta sbarcati troveranno un lavoro e una sistemazione dignitosa, perché questo non è vero, tant’è che il nostro governo, essendo la nostra un’economia libera e non pianificata dallo Stato, non li può neppure garantire a noi cittadini italiani. Questo è un fenomeno che va gestito guardando lontano. Secondo i ritmi attuali sbarcano circa 200 mila migranti all’anno, includendo la rotta balcanica: cosa s’intende fare da qui a 20 anni? È evidente che il loro numero aumenterà, dato che esiste un serbatoio enorme di rifugiati economici che si chiama Africa.
Come verranno gestite queste città non italiane, dal punto di vista logistico, lavorativo, sociale? Il fatto poi che la gran parte degli immigrati sia di religione musulmana complica ulteriormente le cose. Questo richiederà maggiori spese e una maggiore pianificazione per evitare la loro iniziale ghettizzazione e poi un loro tentativo inverso di ghettizzare noi. Come disse un ministro algerino negli anni Sessanta: “Vi conquisteremo usando il ventre delle nostre donne”. E la denatalità che minaccia il futuro dell’Europa rende questo scenario tutt’altro che inverosimile.
