Alla luce degli ultimi avvenimenti che hanno visto l’incontro tra Putin e Trump nonché l’arrivo a Washington dei cosiddetti “volonterosi” europei, Federico  Dal Cortivo  ha intervistato il dott. Giacomo Gabellini  direttore del canale  you tube “Il Contesto “-analista esperto di questioni economiche e geopolitiche,  consulente e saggista che segue da anni la questione ucraina.

Dott.Gabellini prima di addentrarci nei colloqui di Anchorage e Washington, ci illustri brevemente perché si è arrivati alla guerra tra Russia e Occidente?

La guerra è frutto dell’incapacità di costruire relazioni collaborative con la Russia, identificata da un’intera classe dirigente anglo-statunitense formatasi alla corte di strateghi come Brzezinski come un soggetto da tenere rigorosamente separato dall’Europa occidentale. Secondo costoro, la combinazione tra risorse naturali russe e apparati tecno-industriali europei (tedeschi in primis) avrebbe prodotto un colosso geopolitico di primissimo ordine. 

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La necessità di scongiurare questa prospettiva spiega molte delle decisioni assunte dall’Occidente a guida statunitense a partire dal crollo dell’Unione Sovietica: l’espansione della Nato verso est (osteggiata perfino dal teorico del containment George Kennan); l’appoggio alle rivoluzioni colorate sorte in buona parte dello spazio ex sovietico; il sostegno alla realizzazione di corridoi energetici – come il Baku-Tbilisi-Ceyhan – che non attingessero a fonti russe e non transitassero sul territorio russo; la moltiplicazione degli sforzi per integrare Paesi critici per la sicurezza nazionale russa come Ucraina e Georgia nello schieramento occidentale.

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Il 15 agosto Putin giunge in Alaska accolto con tutti gli onori nella base dell’Us Air Force di Elmendorf-Richardson. Quale è la portata di tale incontro che ha tra le altre cose visto l’assenza dell’Europa?

Si è trattato di un vertice di enorme rilevanza. Riservandogli quel tipo di accoglienza, il presidente Trump ha riconosciuto al suo omologo Putin un rango paritario e formalizzato la spaccatura apertasi in seno al cosiddetto “Occidente collettivo”. A differenza dell’Unione Europea, gli Stati Uniti hanno preso atto dei rapporti di forza maturati sul campo di battaglia ucraino e della serietà degli intendimenti russi. 

Hanno quindi cercato di “diluire” il dossier ucraino, vitale per la Russia e assolutamente secondario per Washington, in una più ampia trattativa volta alla costruzione di relazioni collaborative con Mosca. Nell’ottica dell’amministrazione Trump, riportare la Russia in una posizione meno antagonistica rappresenta un obiettivo cruciale per bilanciare il peso crescente che va assumendo la Cina, specialmente alla luce del riposizionamento indiano indotto dalle politiche commerciali assai poco avvedute portate avanti dallo stesso governo Usa. 

L’assenza dei rappresentanti europei risulta del tutto coerente sia con lo spirito dell’iniziativa diplomatica statunitense che con le finalità strategiche perseguite. Se l’obiettivo consiste nel migliorare i rapporti con la Russia avvalendosi della “questione ucraina” come mezzo di scambio, l’inclusione degli europei, tuttora arroccati su una posizione di intransigenza nei confronti del Cremlino, sarebbe risultata controproducente.

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Dopo il 18 agosto Trump ha convocato a Washington Zelensky, Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen, il segretario generale della Nato Mark Rutte, Macron, il cancelliere tedesco Merz, il primo ministro britannico Starmer e il presidente finlandese Stubb. Che conclusioni si possono trarre  da questa specie di “chiamata a raccolta di vecchi amici “?

A Washington, Trump ha sostanzialmente messo gli europei al corrente dei propri intendimenti. Cioè di attuare un graduale disimpegno dal conflitto russo-ucraino, e limitarsi tutt’al più a vendere armi e munizioni a quanti siano disposti a pagarle pur di tenere in piedi il sostegno all’Ucraina. Il coinvolgimento degli Stati Uniti non si sarebbe spinto più oltre questa linea rossa, come testimoniato dall’interruzione della condivisione di informazioni di intelligence inerenti il conflitto in Ucraina nell’ambito dei Five Eyes, annunciata dalla direttrice della National Intelligence Tulsi Gabbard.

Per l’amministrazione Trump, ridurre la propria esposizione costituisce un requisito fondamentale per accreditarsi come mediatrice e raggiungere l’obiettivo di instaurare una relazione costruttiva con Mosca. Agli europei, recatisi a Washington col cappello in mano, è stato riservato un trattamento umiliante, da superiore a subordinato.

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha lanciato l’idea di una “Nato Light”, in cosa consiste e quali sono i rischi di un simile trattato?

La proposta avanzata dalla premier Meloni consisterebbe nell’applicare all’Ucraina il meccanismo di consultazione inter-alleati che, come previsto dall’articolo 5 della Nato, scatterebbe automaticamente a fronte di un’aggressione nei confronti di uno dei Paesi membri.

È questo il concetto di “garanzie di sicurezza” da concedere a Kiev elaborato dal governo di Roma: proiettare surrettiziamente l’ombra della Nato sull’Ucraina. Si tratta di una proposta palesemente inconciliabile con le posizioni assunte da Mosca, che identifica nella neutralità e nel sostanziale disarmo dell’Ucraina, mutilata dei cinque oblast’ (Crimea, Donec’k, Lugans’k, Zaporižžja e Kherson) incorporati nella Federazione Russa ed “epurata” delle componenti più oltranziste, le condizioni categoriche per porre fine alle ostilità.

Ci troviamo nella curiosa situazione in cui chi sta soccombendo sul campo di battaglia pretende di sottoporre ultimatum alla controparte in netto e crescente vantaggio. Il rischio è quello di irrigidire la Russia, rafforzando le compagini più radicali interne alla classe dirigente moscovita che puntano alla totale capitolazione di Kiev. L’intensificazione degli attacchi missilistici russi a cui si assiste in questi giorni suggerisce che questo processo è già in atto.

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Com’è cambiato in questi anni il rapporto fra l’Italia degli Stati Uniti?

L’Italia, così come gran parte del continente europeo, non ha mai conosciuto una condizione di subalternità così profonda. Stiamo ancora pagando il prezzo della sconfitta rimediata nel 1945, sotto il profilo politico, economico, militare e, soprattutto, culturale. Il vero capolavoro realizzato dagli Stati Uniti nel dopoguerra è consistito proprio nel diseducare le classi dirigenti europee al pensiero strategico, con il risultato di rendere intere generazioni di politici, accademici, imprenditori e alti gradi delle forze armate incapaci perfino di immaginare un disallineamento tra le due sponde dell’Atlantico.

Si assiste così a un adattamento pressoché automatico alle direttive che giungono da oltreoceano, a prescindere dal colore dell’amministrazione che le emana. Sulla capacità di recepire con tempismo e precisione tali direttive si costruiscono peraltro intere carriere, sia a livello di politica che di “apparati”. 

Secondo lei in un momento storico dove l’ordine unipolare sembra essere scosso dalle sue fondamenta, vi è per l’Italia la possibilità di ritagliarsi un proprio ruolo?

Nulla è inesorabile. La Turchia, un Paese che presenta non pochi elementi di comunanza con l’Italia, è riuscita ad approfittare del declino strutturale degli Stati Uniti per emanciparsi dal ruolo di vassallo e affermarsi come attore indipendente. A prescindere dal giudizio che si può esprimere sul suo operato e sui suoi metodi spregiudicati, Rečep Tayyp Erdoğan rappresenta un politico di primissimo livello, in grado di sfruttare l’enorme rilevanza geopolitiche della Turchia per giocare simultaneamente su più tavoli, trovare sponde, strappare accordi vantaggiosi. Si tratta di un gioco molto pericoloso, che espone inevitabilmente chi lo conduce a rischi di ogni sorta, ma assolutamente necessario per qualsiasi Paese che ambisca a conquistare spazi di sovranità. La parabola della Turchia andrebbe studiata con maggiore attenzione alle nostre latitudini.