(di Gianni Schicchi) Non era mai stato programmato a Verona Il Turco in Italia di Rossini ed ora vi ha provveduto la Fondazione Arena al Filarmonico mettendo in scena una coproduzione nata al Sociale di Rovigo e poi migrata nei teatri di Ravenna, Jesi, Novara, Rimini e Pisa.
Un allestimento brioso, coloratissimo, minimalista, che ha goduto dell’agile regia del debuttante (a Verona) Roberto Catalano, con le indovinate scene di Guido Buganza, i costumi di Ilaria Ariemme e le luci di Oscar Frosio.
Il cast prometteva sulla carta un’ottima esecuzione che nella realtà ha mantenuto poi tutte le premesse. Merito dell’ottima donna Fiorilla del soprano Sara Blanch (pure brava soubrette) voce ragguardevole nella coloratura, di origini spagnole, che si è guadagnata nella parte finale una grande e lunghissima ovazione del pubblico con la strepitosa aria “Qual caporiccio! Leggiam”.
Ma certamente merito anche del basso Carlo Lepore, un Selim, principe turco di grande charme, con una recitazione genuinamente comica, fin dalla sua sortita nella tonante aria “Cara Italia, alfin ti miro”. Già la sua presenza fisica offre un impatto scenico notevole, ma ciò che lo rende protagonista della serata è soprattutto la qualità e la sicurezza del canto che lo fanno risaltare nel panorama dei bassi buffi, per quel tocco speciale di profondità e di bravura che una volta si sarebbe definito “sprezzatura” (un gran complimento ai tempi del barocco!). L’interpretazione è sempre sul filo di una studiata autoironia che rende la sua performance piena di fascino e verve.

Il debole e pauroso marito di Fiorilla, Geronio, era Fabio Previati, baritono di lunga esperienza e brillante carriera, che anche vocalmente cerca di esprimere le sue incertezze e le sue ambiguità con un canto espressivo che include pure ricercatezze nobili e positive. Manovratore della scena, nelle nuove vesti che Felice Romani gli addossa, come regista e poeta, è il debuttante Michele Patti, un Prosdocimo bravissimo a definire col suo canto la personalità egocentrica, pur non narcisista, del progettista che non si lascia trascinare in realtà problematiche, pur sapendo che un giorno dovrà farci i conti.
Hanno avuto buon risalto pure le ottime qualità del mezzosoprano Marianna Mappa, una Zeida (ex fiamma di Selim) prestante dalla buona tecnica rossiniana. E quelle del giovane tenore Dave Monaco, un Narciso svettante nelle puntature, ma anche garbato quanto basta per rientrare nei canoni dell’aspirante amoroso di Fiorilla. Convincente nella parte di fianco l’ottimo Matteo Macchioni come Albazar amico di Zeida.
Il Coro areniano, preparato da Roberto Gabbiani si mostra ancora una volta all’altezza delle sue migliori performance, mentre l’orchestra diretta da Lù Jia (il maestro cinese tornava al Filarmonico dopo diciotto anni e ad aprile prossimo lo aspetta un impegnativo concerto con Mahler) ha iniziato con una sinfonia disastrosa, ma si è rifatta nel prosieguo dell’opera assecondando l’azione scenica con alcuni felici guizzi, facendo assaporare in molti passaggi il genuino, sapido impasto di cui è fatta la partitura rossiniana.
Pomeriggio festoso, con un pubblico che rasentato l’esaurito e che non ha lesinato numerosi applausi agli interpreti anche a scena aperta.

