La nota giustificazione di Don Abbondio di fronte al Cardinale Federigo torna spesso alla memoria “Se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare”. Ed è una profonda verità. Ora capita all’Unione di centrosinistra, terribilmente in crisi di identità e di unità, di fronte ai PACS ridefiniti Dico (diritti dei conviventi) e di fronte alla decisa azione dei Vescovi italiani e della gerarchia vaticana[//]. Occorreva il coraggio di fare una norma su e per gli omosessuali, di tutelare i loro particolari comportamenti e situazioni, garantire taluni diritti individuali e di tipo sociale. Ma quel coraggio, in verità relativo, non c’è stato. Si è voluto fare un discorso più vasto, allargarlo a situazioni diverse, annacquarlo nella ” regolarità” delle coppie titolari, se lo vogliono, di altri diritti, confonderlo in un discorso di tipo familiare, negandone la terminologia. Il risultato e sotto i nostri occhi, con un disegno di legge che scontenta tutti, destra e sinistra, laici e cattolici, gay e bisessuali, facendo gran confusione tra diritti presunti e diritti veri, ignorando il dovere, legiferando assurdamente in materia di sentimenti e rapporti interpersonali privatissimi. Tutto per la mancanza di coraggio nel difendere, dicendolo, una posizione assai piccola (e quindi giustamente difendibile) di popolazione che avrebbe avuto la possibilità di norme specifiche e chiaramente finalizzate. Così facendo si è dimenticato che nel nostro Paese esistono già due tipi legittimi e chiari di matrimonio: quello concordatario e quello civile che consentono quindi a tutti -cattolici o laici- di regolare i rapporti, secondo un diritto consolidato. Non c’era, non si sentiva, il bisogno di un terzo tipo di rapporto, di un rapporto in sostanza, per chi non vuole né l’uno né l’altro, basato su una dichiarazione di volontà non impegnativa, non produttrice di doveri oltre che di diritti. Si è parlato dei tanti giovani che convivono e si dimentica che tali convivenze trovano la loro ragione in altri problemi, ma anche e soprattutto proprio nella volontà di non assumere impegni. Con la confusione, con la incapacità di essere chiari nelle volontà politiche, si è inoltre favorita, ed in parte facilitata, la riapertura di un conflitto cattolico-laico di cui non si sente proprio la necessità. Si è -proprio da parte del Governo- posto la base per interventi della gerarchia cattolica che mettono in crisi la laicità dello Stato. Ora ci troviamo ancor più che in passato, di fronte alla confusione anche culturale tra laicismo e laicità, cioè di fronte ad un termine fuorviante ed un altro che esprime la cultura dello Stato, il suo essere di diritto, la sua doverosa neutralità di fronte alle scelte religiose dei suoi cittadini. L’intolleranza, la guerra ideologica propagandata dell’Islam, la lotta agli infedeli altro non è se non la mancanza della cultura di uno Stato laico e quindi dell’esistenza di uno Stato teocratico. Si è innestata anche -complice il presidente Cossiga- la polemica sul dovere dei parlamentari cattolici di obbedire al proprio Vescovo. Ma Cossiga può farlo perché sta in Senato, legittimamente ed autorevolmente, senza essere rappresentante eletto. Ma se dovesse rappresentare -come ogni parlamentare- i propri elettori potrebbe essere così certo di rappresentare solo quelli cattolici? A questa situazione ci ha portato l’incertezza, la mancanza di coraggio di una maggioranza tra l’altro elettoralmente sostenuta, e non poco, da una buona parte della gerarchia cattolica di vertice e di base. Così nascerà una brutta legge; brutta non perché è contro la credenza cattolica ma in sé stessa, e così giudicata anche dai laici più attenti e meno inclini al compromesso. Nella grande fiera della ipocrisia, dove politici legittimamente separati, divorziati o sacrorotati, divengono impegnati “defensores fidei”, si sente forte l’esigenza della coerenza e del coraggio. Altrimenti ci si ritroverà non di fronte a “sposi di fatto”, ma a “promessi sposi” con nuovi Don Abbondio, che il coraggio non se lo possono dare.