(di Vincenzo Rocca) La fama dei bigoli veronesi si trova certificata in un sonetto in lode della città di Mantova, curiosamente, di Giammaria Galeotti (1699-1744), edito postumo nel 1782, che si chiude decantando la castagna d’acqua. Cresce e si raccoglie nei laghi di Mantova (Trapa natans L.) e, giocando sul nome popolare del frutto, i trigoli, per agganciarlo ai bìgoli e a Verona dice «Per fin ha un frutto che, come famosa fan Verona i bigoli, singolar ci fa il lago, e son i trigoli». Che si facciano all’anatra, De.co. Comunale di Castelnuovo del Garda, o alla Torre, un quasi “saor“, fanno parlare di sé i Bigoli del paese lacustre. Dunque ecco la notizia, che pone in risalto una nuova eccellenza gastronomica. I Bigoli di Castelnuovo del Garda .

Di cosa si tratta lo scopriamo con Andrea Adami del Panificio storico di Castelnuovo del Garda, consigliere delegato al commercio ed alle associazioni.  “Rovistando tra vecchie fatture di famiglia ho trovato in una scatola polverosa, dimenticata dal tempo, fatture datate 1935 ( si avvicinano quindi i 90 anni) di acquisto di materie prime per la preparazione dei Bigoli al torchio, piatto assai popolare tra i nostri compaesani prima della seconda guerra mondiale. I Bigoli sono una pasta lunga, fatta di grano tenero-acqua-sale, di origine veneta ma diffusi anche nella Lombardia Orientale. La principale caratteristica di questo grosso spaghetto è la ruvidità, che le consente di trattenere sughi e condimenti. Questo è un prodotto di origine contadina in uso fin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. “ racconta Adami, già perché l’effettivo consumo di bìgoli è poi testimoniato in registri di spese, sia di singole famiglie sia di comunità religiose.

La leggenda vuole che nel 1604 un pastaio di Padova, detto “Abbondanza”, venne autorizzato dall’allora Consiglio del Comune a godere del brevetto di un macchinario di sua invenzione. Il signor Abbondanza riuscì a produrre diversi tipi di pasta lunga, ma la predilezione dei clienti cadde su una sorta di spaghettoni ruvidi poi battezzati “bigoli”. Il nome, sembra ricollegato alla forma, deriverebbe probabilmente dal termine dialettale “bigàt” (bruco), o dal latino “bombyx” (baco). I Bigoli di magro sostituivano  in carnevale i tradizionali maccheroni o gnocchi («bìgoli del venerdì casolaro»). In questo caso, però, rimane costante il condimento a base di burro («butirro per li bìgoli casolari»), a cui si aggiunge verosimilmente formaggio, elemento distinguente della festività, nota appunto come veneri casolaro. Ai giorni di magro deve essere invece riservato l’abbinamento con le sardèle, verosimilmente sardine (Sardina pilchardus W.) o acciughe ( ) sotto sale, che risultano pure acquistate regolarmente, con la specifica indicazione che sono destinate sia alle monache sia al personale di servizio.
Da fine ‘800 nelle famiglie del nord-est dell’Italia si diffuse un marchingegno utile a fare la pasta lunga senza uova: il “bigolaro”. Questo semplice strumento veniva fissato al tavolo e al suo interno era fatto passare l’impasto che attraversava una trafila ruvida. Appena fatti, i bigoli erano messi ad essiccare a cavallo di bastoni sospesi fra due sedie. Così fa Adami . Le massaie preparavano in genere abbondanti quantitativi utili per tutta la settimana. Oggi esistono alcune varianti, come ad esempio quella scura con farina di grano saraceno e uovo

I bigoli tradizionali sono conditi con ragù di carne o di frattaglie d’anatra, ma diventano piatto di magro d’eccellenza in abbinamento alla salsa d’acciughe o al sugo di alborelle. Castelnuovo del Garda ne ha fatto anche la sua prima De.Co. con i Bigoli al ragu’ di anatra. Sia che si tratti di pesce di lago o ragù di anatra, i bigoli sono il vero piatto principe di una lunga tradizione enogastronomica che avrebbe ulteriormente valorizzata e conosciuta. Il termine dialettale “bigoi” sta a descrivere il formato di pasta lunga a “vermicello”, realizzata nella ricetta originale tramite l’uso di macchinari a torchio. I bigoli al torchio sono infatti dei grossi spaghetti i cui ingredienti originari erano un mix di grano duro e grano tenero, acqua e sale.

La loro presenza sulle tavole veronesi ci è documentata, anche in termini ufficiali, perlomeno dal 1636, quando viene istituita l’arte dei biavaroli, i cui statuti stabiliscono come questa abbia l’esclusiva, oltre che sulla vendita al minuto di farine, granaglie e legumi, anche sulla confezione della pasta, realizzata in diverse forme: «bìgoli, paparelle, lasagne, macaroni di Puglia et ogni altra sorte di simili paste». Pur essendo i bigoli pasta fresca non venivano inizialmente usate le uova perché considerate un ingrediente troppo prezioso per le famiglie contadine più povere. Le uova infatti venivano più spesso utilizzate semmai come merce di scambio.

Bisogna giungere agli anni Ottanta e Novanta per ritrovare i bìgoli stabilmente come piatto veronese, con la loro proposta come “bìgoli co le agòle” − ovvero conditi con alborelle sotto sale fatte disfare in olio bollente −, considerati, per esempio, caratteristici della regione benacense da una guida alla cucina tradizionale del lago di Garda del 1997. In questa guida, peraltro, si ricorda immediatamente dopo la versione veneziana e veneta dei “bìgoli co le sardéne“, per la quale si sottolinea come “l’acciuga è sostituita con un prodotto locale: i filetti di sarda lacustre sotto sale, le sardéne salè“.