Uno dei tanti nodi che il governo di Giorgi Meloni dovrà sciogliere è quello della carenza dei medici che sta creando gravi problemi sul fronte dell’assistenza ospedaliera e di quella territoriale con centinaia di migliaia di cittadini che rimangono senza medico di famiglia. Problema conseguente a un altro problema: il numero chiuso per l’accesso alla facoltà di Medicina, che da più parti viene contestato. Alcuni lo vogliono eliminare, altri modificare. Ma quand’anche rimanesse c’è a monte un ulteriore problema: il calcolo sbagliato del numero di medici che servono agli italiani, ossia il ‘numero programmato’, che è quello che dovrebbe regolare gli accessi a Medicina in base al fabbisogno di medici e di professionisti sanitari.
Chi ha fatto la programmazione negli ultimi 20 anni ha sbagliato tutto. I risultati si sono visti.

Nel 2022 i posti a Medicina sono stati 14.740, 4 mila più del 2019, ma sempre insufficienti. Tanto chesiamo stati costretti a chiederne a Cuba, all’Albania e all’Argentina.
Il calcolo del fabbisogno di medici e professionisti sanitari è in capo, non al ministero della Salute come sarebbe logico, ma a quello del’Università, che per farlo s’avvale delle regioni. Il risultato di questo calcolo è, stranamente, sempre sbagliato per difetto. Chissà perché! Forse perché inficiato da interessi diversi da quelli orientati al servizio dei cittadini. E proprio l’errata programmazione è il motivo per il quale tanti studenti respinti hanno vinto i ricorsi ai rispettivi Tar.
Ma se il calcolo farlocco del fabbisogno è l’errore che sta a monte del numero chiuso, ce ne sono anche a valle.

L’Università per tener basse le iscrizioni s’appella sempre alla carenza di aule e di docenti. Una giustificazione speciosa, smentita dalla storia. I medici che oggi vanno in pensione, appartenenti alla generazione dei cosiddetti ‘boomer’, figli del boom demografico degli anni ‘5’0 e ’60, si sono iscritti in massa a Medicina, hanno studiato, si sono laureati ed hanno curato fino ad oggi gli italiani. Allora c’erano ancora meno aule, meno professori e meno strutture di adesso. Eppure quei medici hanno imparato bene il loro lavoro visto che in questi ultimi 40 anni, prima di andare in pensione, non risulta abbiano passato il tempo ad ammazzare i loro pazienti. Anzi, hanno esercitato egregiamente la professione. Come mai? Miracolo?
E’ chiaramente un errore attaccarsi alle carenze strutturali dell’Università per giustificare il numero chiuso.

Ma a valle c’è anche un altro errore, costituito dall’imbuto delle scuole di specializzazione, i cui posti non sono mai abbastanza. Ma se il problema è questo, basta allargare l’imbuto. Una volta, prima che prevalessero la mentalità burocratica e le imposizioni europee, gli specializzandi che non trovavano posto nei policlinici universitari potevano andare a imparare nei tanti reparti degli ospedali di provincia, ricevendo sul campo una formazione altrettanto valida. Per non parlare dei medici di medicina generale che oggi per entrare nel ruolo devono fare un’apposita scuola, mentre prima bastava la laurea e l’abilitazione ad esercitare.

Il governo Meloni per risolvere il problema deve partire da queste semplici constatazioni. Il nuovo ministro della Salute, Orazio Schillaci, e quello dell’Università, Anna Maria Bernini, si devono mettere attorno a un tavolo e ripartire da zero, ricalcolare la programmazione, togliere il numero chiuso e ottimizzare il sistema formativo sfruttando tutte le risorse che esistono in Italia, pubbliche e private.