Irpinia, 40 anni fa il terremoto che rese adulta una generazione e Oscar Luigi Scalfaro presidente

(b.g.) Dell’Irpinia ricordo il gran freddo, uno di quelli che ti entrano nelle ossa e non c’è verso di cavarselo via sino al maggio successivo. Eppoi l’ululare perenne dei cani; di giorno un guaito costante, di notte, prima delle scosse di assestamento, un ululato disperato che si rincorreva da una collina all’altra.  Per la classe 1960, il terremoto dell’Irpinia (Castelnuovo di Conza, Salerno, 23 novembre 1980, alle ore 19,34,52 novanta secondi di scossa, un minuto e mezzo con 6.9 scala Richter o 10.0 scala Mercalli) è stato il rito di passaggio, ragazzi di vent’anni che dall’oggi al domani si sono trovati a gestire cose mai prima neppure immaginate: centinaia di persone loro affidate e che da loro dipendevano per tutto: sicurezza, vitto, beni di prima necessità, una roulotte al posto della casa. Per la prima volta quella generazione si è confrontata con la morte e la distruzione e in larga parte si è arrangiata da sola, usando un buon senso che nemmeno sognava di possedere, piccoli gruppi di ragazzi in mimetica nel mezzo di un cratere grande quanto sei province, nel Sud più profondo, lontano dalle città. Ragazzi di leva che si sono improvvisati soccorritori, talvolta isolati dai propri ufficiali, col solo conforto dei marescialli dei carabinieri sopravvissuti al sisma.

Ma l’Irpinia non è stata soltanto questa somma di ricordi personali, ma la tragedia che ha chiuso drammaticamente la Prima Repubblica in Italia, mettendone in luce tutti i suoi aspetti più deleteri, un Paese dal ventre molle e in quel ventre, il genio malvagio della nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo che accoglieva le prime colonne di soccorso facendo saltare con la dinamite negozi e attività degli avversari, cogliendo l’occasione del caos per regolare vecchi conti e per gettare le basi dell’assalto agli aiuti di Stato.

Ricordo il silenzio, nel buio, dei miei commilitoni arrivati a Tito, provincia di Potenza, dopo quattro giorni di viaggio. I primi soccorsi, dopo quattro giorni. Il campo allestito in una fabbrica distrutta, all’addiaccio praticamente. Ricordo il senso di umiliazione davanti ai genieri tedeschi, arrivati in treno, freschi, riposati, all’alzabandiera in ordine con la doccia fatta mentre noi abbiamo aspettato due settimane prima di trovare acqua calda e sapone nei bagni di una palestra dove vivevano ammassate donne e bambini. Ricordo il silenzio di Verona che ci ha visto lasciare in piena mattina la caserma Duca in una lunga colonna verso il casello per prendere l’autostrada nella più totale indifferenza, e – au contraire – l’assalto quasi gioioso di Napoli mentre l’attraversavamo di notte, circondati da una folla quasi impazzita che si infilava fra i camion, che lanciava nei cassoni sigarette, cioccolata, biscotti …nemmeno fossimo noi quelli da aiutare…

 «In realtà, io su questo aspetto ho un ricordo diverso, di una grande mobilitazione anche qui al nord, con tanta gente che ha messo mano al portafogli, che ha spedito giù la propria roulotte per dare un tetto a chi l’aveva perduto, in un numero così elevato da intasare le autostrade. Non c’era scetticismo. Il rancore, le battute offensive arrivarono dopo, dopo che era partita la macchina del fango»:  Settimo Gottardo, già parlamentare e sindaco di Padova, è stato membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terremoto dell’Irpinia; di tutti era uno dei pochi che sapeva di case popolari e di gestione pratica (era stato assessore all’edilizia nella città del Santo) ed essendo uno dei più giovani, fu segretario al presidente della Commissione, Oscar Luigi Scalfaro.

Il terremoto dell’Irpinia è stato un grande scandalo italiano, ma anche il grande pretesto per far fuori una intera classe dirigente (al governo quel giorno c’era Arnaldo Forlani, dc al primo mandato da premier, e  alla Difesa, il socialista Lelio Lagorio) e per avviare il Paese ad un cambio totale di scenario politico. Questo sulla pelle di 2.735 persone morte sotto le case e di quasi 10mila feriti. Uno scandalo costato agli Italiani oltre 50mila miliardi di lire, di cui ben 15mila finiti esclusivamente a Napoli: una sproporzione abnorme,  quando la ricostruzione totale del patrimonio edilizio in tutto il cratere ne è costata 18mila. Certo, i grandi numeri c’erano tutti, l’Irpinia è stato un Friuli moltiplicato per tre, in una realtà sociale però molto più fragile: piccole comunità, svuotate e sfiancate dall’emigrazione: 36 paesi completamente rasi al suolo; 280 gravemente danneggiati; 687 ammessi alle provvidenze. 50mila miliardi e mancano ancora 100 milioni€ per chiudere gli ultimi conti…

Il cratere comprendeva tutta la provincia di Benevento, quella di Salerno, quella di Avellino e quella di Matera; 86 dei 91 Comuni del Napoletano; 53 dei 99 Comuni della Provincia di Potenza; 102 dei 104 Comuni di quella di Caserta; 14 dei 64 Comuni del Foggiano. La sola prima emergenza è costata quasi 5mila miliardi in poche settimane e già si sapeva che non sarebbero bastati…

Settimo Gottardo: «In Commissione per incarico di Mino Martinazzoli, segretario di Oscar Luigi Scalfaro, e lì conobbi la politica più brutale».

«Mino Martinazzoli mi ha infilato in quella Commissione – ricorda oggi Gottardo – e lì ho conosciuto la politica più brutale, lì ho capito che queste commissioni, la ricerca di mille pareri tutti autorevoli, non erano altro che un modo per alzare un gran polverone, per coprire quello che in realtà si stava facendo. E oggi posso dire che tutta la favolistica che ci hanno raccontato non corrisponde alla realtà. La polemica sull’Irpinia, sulle azioni della Banca Popolare in mano a Ciriaco De Mita, tutta la pubblicità data ai casi di distrazione dei fondi pubblici da parte di qualche (non tutte, qualche) impresa del nord, tutte le inchieste giornalistiche avevano uno scopo molto chiaro: distrarre l’attenzione da Napoli, da quanto avveniva in quella città che era amministrata dal Partito Comunista, mettendo sotto i riflettori della peggiore cronaca sempre e soltanto l’Irpinia che, guarda caso, era amministrata da DC e PSI, due partiti travolti appena dieci anni dopo. Il dividendo di quella manovra? La Presidenza della Repubblica ad Oscar Luigi Scalfaro col voto determinante dei comunisti italiani. E non è dietrologia: a quell’accordo io c’ero, ero presente».

Ricordo il primo turno anti-sciacallaggio, di notte, nel centro storico, distrutto, di Tito:  al buio, nel fascio della torcia elettrica, si muoveva tutto, dietro ogni angolo ombre correvano via veloci; ricordo la estrema povertà nelle case, ricche soltanto di centinaia di bottiglie di passata di pomodoro fatta a mano; ricordo la coppia di anziani recuperata in montagna dopo tre settimane di isolamento sopravvissuta proprio grazie a queste riserve di passata e di peperoncino, ricordo il loro sguardo non amichevole – dove cazzo eravate? –  e aver impantanato la Campagnola che avrebbe dovuto portarli in salvo non credo abbia migliorato il loro umore…

«Ci portarono ad un sopralluogo ad Avellino – continua Settimo Gottardo – ma non ci fecero mai vedere il centro o le zone danneggiate, non potemmo verificare di persona, ma soltanto interfacciarci col personale della Prefettura. Ci tennero in un albergo fuori città. L’ultima sera, una cena sontuosa, letteralmente ostriche, aragoste e champagne che ci mise in imbarazzo considerando chi eravamo e perché ci trovavamo lì. E fu a quella cena che due emissari del PCI vollero parlare col presidente Scalfaro. Rimasi pure io, come suo segretario, nonostante il palese fastidio dei due. Apprezziamo il tuo lavoro, dissero, vorremmo appoggiarti per il Quirinale».

Ad Avellino, gli emissari del PCI da Scalfaro: Apprezziamo il tuo lavoro, vorremmo appoggiarti per il Quirinale

A Napoli, il PCI colse l’occasione dei 50mila sfollati dalle case lesionate (i senzatetto arrivarono al numero record di 280mila persone nel cratere) per costruire da zero interi quartieri (alcuni sono ancora lì da finire…): «Il sindaco Maurizio Valenzi ci portò a visitarli. Ne rimasi scioccato. Sono quartieri che tutto il  mondo oggi conosce, sono stati il set di Gomorra di Roberto Saviano, ad esempio le vele di Scampia. Lì dentro ci infilarono di tutto. Pensai che bisognava essere disperati per andarci a vivere e che chi non lo era lo sarebbe presto diventato: fu la più grande tragedia sociale dal dopoguerra. Al presidente dei costruttori edili napoletani, un imprenditore di passaporto turco, chiesi quanto costavano a metro quadro quelle case. Mi rispose sicuro, tranquillo: un milione e 700mila lire. Restai basito, avevo appena fatto costruire a Padova 2mila appartamenti per rispondere alla crisi degli alloggi: li avevo pagati 450mila lire al metro quadrato. A Napoli costavano più di tre volte tanto. Quando lo dissi, nessuno della Commissione trovò da obiettare. Le mie case, dopo 40 anni sono ancora lì; quelle di Napoli le stanno tirando giù. Ma di quella Napoli ricostruita, a quei prezzi,  dal PCI nessuno disse niente, tutti guardavano all’Irpinia. Andateci ora: l’Irpinia sembra il Trentino; Napoli invece…»

«A Napoli le nuove case per i terremotati costavano tre, quattro volte di più rispetto a quanto avevo appena pagato per case popolari a Padova, ma quando lo evidenziai nessuno nella Commissione disse nulla…»

La Commissione d’inchiesta produsse un documento finale di centinaia di pagine, alla 176.ma parla delle infiltrazioni camorristiche; parla della Banca Popolare dell’Irpinia e di quella di Pescopagano. Nemmeno una riga sulle vele di Scampia.

Nel cratere ci furono anche un sacco di cose belle e ben fatte: la Germania ricostruì Satriano, a Tito arrivò fra le altre la Ferrero con la Nutella e la coltivazione delle nocciole; tecnici partirono dal Nordest (erano quelli che già avevano lavorato nel Friuli della ricostruzione) per dare sostanza a uffici comunali rimasti senza personale all’altezza della sfida.

Rescuers with bodies and coffins of victims of the earthquake, Balvano, Italy, 23 November 1980. ANSA/OLDPIX

Ricordo che passate le prime giornate di caos, dell’ognuno faccia il meglio che può, la macchina grigioverde ritrovò le sue regole e la sua logistica. Arrivò finalmente anche il camion-doccia con l’obbligo di fare merenda subito dopo le abluzioni e guai a lasciarla lì; arrivarono le forniture della Nato, sacchi a pelo canadesi, divise pulite. Ricordo il magazzino centrale di Potenza  con pile di materiale alte sino al soffitto con “di tutto e di più”; ricordo Franco Angioni – il generale dei paracadutisti che ci comandava e che poi guidò la prima missione internazionale italiana in Libano – che trovandoci in centro a Potenza “off limits” e a tarda sera non ci cazziò, ma ci pagò la cena.

«Dall’Irpinia è nata la Protezione Civile, lì si è capito che un terzo terremoto non l’avremmo superato senza darci un’organizzazione per la crisi e quello fu il lascito migliore. Quello che non abbiamo imparato è ad avere una burocrazia che non scappi davanti alle responsabilità nelle situazioni difficili, preferendo sempre la soluzione commissariale. Ma questa non funziona più e lo dimostra Amatrice: dopo quattro anni sono ancora con le macerie in strada. In Friuli, dopo quattro anni, avevano già fabbriche e case in piedi e funzionanti; pure in Irpinia dopo quattro anni si costruiva e si era tornati a vivere. Ad Amatrice siamo precipitati indietro» conclude Settimo Gottardo.

Due anni dopo la cena di Avellino, Oscar Luigi Scalfaro il 28 maggio 1992 diventò il nono Presidente della Repubblica Italiana: la sera stessa nominò responsabile del patrimonio architettonico del Quirinale uno dei due emissari del PCI.  Qualche giorno prima Settimo Gottardo e Wilmo Ferrari, parlamentare veronese, incrociandolo lo avevano canzonato un po’«Noi votiamo te» gli dissero. Scalfaro ad alta voce rispose: «Mai. Disciplina di partito, disciplina di partito» poi abbassando la voce: «Non troppo evidenti, solo qualche voto, giusto per dare il segnale…»

Ricordo bene anche il  ritorno a Verona: dalla stazione di Porta Vescovo alla Duca non ci filò nessuno. Eppure era Natale, e a Natale una carezza la si dà anche a un cane. A noi, no. Non eravamo che soldati di leva, in fondo.

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