La guerra delle parole

(di Paolo Danieli) ‘Ne uccide più la lingua della spada’ dice il proverbio. E’ vero. La potenza delle parole è tale da costituire una delle armi più potenti in mano, o meglio, in bocca all’uomo. E soprattutto del potere per condizionare il pensiero e il comportamento della gente. L’uso insistito e tendenzioso di una parola in modo improprio o sbagliato ne fa addirittura cambiare il significato.
Se la realtà che ci rappresentiamo comunicando è definita dalla parole che usiamo, cambiando il significato delle parole cambia anche la realtà che viene rappresentata. E di conseguenza cambiano le opinioni e i comportamenti di coloro che credono a tale rappresentazione della realtà, che in buonafede ritengono vera anche se falsata dalle parole.
Deformare la realtà, rappresentandone un’altra che non esiste, e perciò non realtà, è uno dei più grandi imbrogli utilizzati dal potere per coartare la volontà delle persone. E’ la guerra delle parole, come la definiva cinquant’anni fa Giorgio Almirante. 

Ecco degli esempi. 

La parola élite è entrata nel parlare corrente per indicare impropriamente il gruppo di potere mondialista che gestisce l’economia e la politica. Il termine appropriato è oligarchia, che significa ‘potere di pochi’, mentre élite, dal latino ‘eligo, scelgo, eleggo’ ha un’accezione positiva che conferisce autorevolezza e fiducia a chi ne fa parte. Ma quei signori che appartengono all’élite non sono stati scelti né eletti da nessuno e quindi l’aggettivo giusto è ‘pochi’, da cui oligarchia. Invece il politicamente corretto ha imposto élite.

Un’altro esempio della guerra della parole è la confusione che vien fatta volutamente fra cittadinanza e nazionalità.  Il mainstream mediatico tende a farne un sinonimo per favorire il mescolamento degli immigrati allogeni e alloglotti con gli italiani. In realtà si tratta di due concetti differenti. La cittadinanza riguarda lo status giuridico, essere iscritto fra i cittadini di uno stato con tutto quel che ne consegue in termini di diritti e doveri, mentre la nazionalità, che contiene l’etimo di ‘nascita’ riguarda la nascita, da chi uno è nato, l’etnia cui appartiene. I giovani arabi di seconda generazione nati da immigrati magrhebini possono esser cittadini italiani, ma di nazionalità marocchina, tunisina o, in senso lato, araba.

Al medesimo intento omologante è riconducibile l’uso, quando viene arrestato uno straniero, di evitare di rivelarne la nazionalità utilizzando la circonlocuzione “di origine”. Lo scopo è di attenuare il fatto che il reato è stato commesso da uno straniero. Dicendo “di origine” l’informazione che si dà è che si tratta di uno come noi, solo di origine straniera. Così è più facile far passare in secondo piano che molti reati sono commessi da immigrati. 
Parlare di “origine” ha senso per un discendente da italiani emigrati in Argentina cent’anni fa. Però se un automobilista tedesco sul lago provoca un incidente non dicono “automobilista d’origine tedesca”, ma “tedesco”. Perché non c’è niente da nascondere o da attenuare. Invece per il mainstream mediatico non sono più tunisini, ivoriani, ghanesi, marocchini ecc, bensì “di origine”. Un modo capzioso per rendere accettabile una situazione il più delle volte illegale, visto che molti sono “irregolari sul territorio nazionale”, come scritto anche nei comunicati ufficiali che, sempre in ossequio al politicamente corretto, preferiscono scrivere ‘arrestato 21enne’ piuttosto che arrestato un romeno, un marocchino o un tunisino. 

E quando si vuole alterare la realtà vuol dire che sotto c’è un grande imbroglio.

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