La Nostra Storia

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Nel 1866, annesso al Regno d’Italia il Veneto, nacquero nuovi organi di stampa quotidiana. A Verona espressione della imprenditoria industriale e commerciale e della nobiltà veronese fu “L’Arena” e accanto “L’Adige/Gazzetta del Popolo” giornale politico quotidiano voluto da Giuseppe Civelli, a capo di un gruppo di dimensioni nazionali che da dieci anni operava con un proprio stabilimento in città.

L’editore affidò la direzione del foglio a Vincenzo Puarè, utilizzando collaboratori veronesi; il gerente era Federico Schieppati. Il quotidiano, come asserivano numerosi editoriali, il primo del 15 ottobre 1866 a firma di Carlo Pisani, sosteneva la causa della produzione, del lavoro e dell’istruzione diffusa, dichiarava ideali risorgimentali e, forse già caratterizzandosi, con non poche incoerenze, un po’ più progressista dell’altro quotidiano cittadino, comunque accomunati per il momento da idee liberali. Essi offrivano più opinioni che notizie. Così anche per l’intera stampa nazionale fino alla metà degli anni Settanta quando cambiò completamente rotta.

Di quel periodo, vale la pena di ricordare Francesco Giarelli con frequentazioni veronesi, in particolare condirettore della “Cronaca Rosa”, foglio scapigliato in riva all’Adige dell’editore Annichini che, come ricorda Fabio Zavallon, si può dire abbia inventato a Milano nel giornalismo la cronaca “grazie a lui, il cronista non fu più un mero ricopiatore dei verbali della questura, [che pure aveva frequentato per primo] ma un vero e proprio inviato, intelligente, attivo, scaltro; per contro, la cronaca, con una significativa evoluzione nel linguaggio, diveniva racconto, letteratura”.

“L’Adige”, che presto perse tutti i complementi del titolo, “Gazzetta del Popolo” prima,  “Gazzetta di Verona” poi,  era di piccolo formato (cm. 21,5X29,5) e occupava solo due colonne. Usciva tutti i giorni alle cinque pomeridiane al costo di 5 centesimi la copia.

Era stampato negli Stabilimenti Civelli di Via Dogana che corrispondevano probabilmente all’alto palazzo oggi all’angolo tra Ponte Navi e via Dogana. Sotto il titolo aveva assunto il seguente motto: “Non fia loco ove sorgan barriere/Tra l’Italia e l’Italia mai più.

Nei primi anni “L’Arena” e “L’Adige” si scambiarono volentieri i ruoli passando da posizioni governative ad antigovernative. Infatti, dopo “L’Arena”, l’“Adige” di Civelli, grazie all’appoggio del prefetto Antonio Allievi, era divenuta, dal 2 marzo 1867, il foglio “ufficiale per la inserzione degli Atti Amministrativi e Giudiziari della Provincia”, di fatto finanziamento importante per la vita di un quotidiano. Ovviamente l’appalto aprì un’aspra polemica con “L’Arena” che aveva perso il redditizio incarico:  «L’Arena ad ogni passo proclama ch’essa è un giornale indipendente, gli altri fogli prezzolati, camorra del potere, manomorta del pensiero! ecc. Ed il peccato di cui è colpevole l’Arena, l’Arena lo riversa sull’Adige e dice che noi divenimmo governativi il giorno che fiutammo la possibilità di ottenere il privilegio per l’inserzione degli atti giudiziari e amministrativi» (All’Arena, “L’Adige”, 1 marzo 1867).

Incoerenze del tempo quando i confini tra sinistra e destra “liberale” erano esigui e potevano mutare al primo soffio di vento.

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

L’imprenditore Giuseppe Civelli aveva costruito i propri stabilimenti nelle varie città che in quegli anni, una dopo l’altra, avevano assunto il ruolo di capitali d’Italia (Torino, Firenze e Roma), vincolando le sue fortune all’evoluzione del quadro politico. A Verona “L’Adige” seguì la stessa strada pur avendo l’editore-stampatore installato gli stabilimenti di stampa ben prima della nascita del Regno d’Italia e dell’annessione del Veneto.

Tuttavia, gli interessi editoriali non erano solo di natura squisitamente politica, ragion per cui Civelli pubblicava contemporaneamente a Verona numerose testate, (“L’Alleanza”, “La Gazzetta di Verona”…) non sempre omogenee sul piano  politico, con l’intento di coprire gli orientamenti e le aspettative di settori diversi del pubblico utilizzando, di fatto, una sola redazione, o comunque giornalisti e collaboratori che scrivevano su tutte le testate locali e non di rado si trasferirono alle pubblicazioni milanesi della casa madre, cominciando dall’autorevole Ugo Capetti, zio del grande critico teatrale del “Corriere della Sera”, Renato Simoni.

Giuseppe Civelli nacque da Luca e da Orsola Milani a Barasso presso Galvirate (Varese) il 2 giugno 1816. Di famiglia umile, cominciò a nove anni a lavorare come apprendista tessitore a Busto Arsizio; ricco d’iniziativa, pochi anni più tardi si trasferì  a Mantova come maestro di calligrafia. Acquisì abilità nel disegno di carte geografiche (proprio nei suoi stabilimenti veronesi fu stampato il prestigioso “Bollettino” della Reale Società Geografica Italiana), e con i primi risparmi aprì a Milano, nel 1840 un piccolo impianto tipografico e calcografico. Dieci anni più tardi diede vita alla tipografia veronese, e dopo l’Unità anche ad altre due a Torino e ad Ancona.

«Il momento decisivo per collocare in primo piano, su scala nazionale, l’azienda così audacemente ingrandita, si presentò nel 1865, in seguito al trasferimento della capitale a Firenze. In questa città il Civelli acquistò un nuovo e più importante stabilimento tipografico, dando inizio, il 14 giugno dello stesso anno, al quotidiano “Il Corriere Italiano”», fondato con l’incoraggiamento di alcuni politici, ma il controllo della testata fu esclusivo appannaggio di Civelli che per questo si trasferì a Firenze.

L’attività dell’azienda si espanse con «l’acquisizione di una fonderia di caratteri e di due cartiere, a Chiaravalle nelle Marche e a Sarteano in Toscana, si allargò bene al di là della cartografia e delle grandi compilazioni storico-geografiche che ne avevano costituito fino ad allora la principale caratteristica. Il Civelli aveva intuito quali enormi prospettive di mercato si aprissero non solo all’editoria di cultura, ma all’industria grafica in genere dopo l’unificazione d’Italia».

La liberazione di Roma lo indusse a spostare i propri interessi nella capitale attivando in quella città un moderno stabilimento tipografico. Acquisì e dirottò a Roma, con il sottotitolo di “Giornale della democrazia italiana” il foglio torinese “Il Diritto” di tendenza democratica (sinistra storica) diretto da prestigiosi intellettuali e politici: Correnti, Depretis, Pareto…

Nel 1878 acquistò “La Lombardia” di Milano che aveva la ragguardevole tiratura di ventimila copie. Ma la vicenda del gruppo editoriale, molto simile ad altre del tempo, volgeva al termine. Persi prematuramente due nipoti assai importanti per l’azienda, Giuseppe Civelli si spense a Firenze il 7 marzo 1882.

Per questo articolo abbiamo tratto preziose informazioni dalla scheda di Civelli nel Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani)

Quando nel maggio 1869 dei facinorosi bruciarono alcune copie dell’”Adige” davanti alla sede della tipografia Civelli in via Dogana il vecchio direttore del quotidiano, Antonio Caumo, rimase sorpreso e offeso. Evidentemente quei ribaldi ignoravano il suo forte spirito patriottico e il fatto che egli aveva dovuto abbandonare la sua città natale e redditizie attività perché il foglio locale da lui diretto era malvisto dalle autorità austriache.

La presenza di Vincenza Puarè alla direzione dell'”Adige” era stata molto breve, cessò a metà aprile del 1867. I giornali, come le navi, hanno bisogno di un capitano che governi l’equipaggio e indichi la rotta, altrimenti affondano. Giuseppe Civelli ricorse, dopo una breve parentesi (tra il 14 aprile e il 30 aprile 1867 la testata rimase priva di un vero direttore) all’esperienza e al buon senso di Antonio Caumo (nato a Rovereto il 19 febbraio 1811 e morto a Verona il 18 ottobre 1883), anch’egli formatosi culturalmente e ideologicamente nei tumultuosi anni del Risorgimento nazionale.

Verona – racconterà il figlio Giuseppe in un opuscolo biografico – non gli era estranea, «anzi egli vi avea studiato i classici con Aleardo Aleardi e la fisica sotto il chiaro  Zamboni». Dopo aver terminato gli studi nella città scaligera, Antonio Caumo entrò diciottenne nel seminario di Trento, per poi abbandonarlo nel 1832 così come anche la prospettiva del sacerdozio.  Nel 1841, sposata Fortunata Baldessarini, cominciò a guadagnarsi da vivere prima dando lezioni private, poi lavorando tra il 1836 e il 1853, sempre più assiduamente, per il “Messaggiere Tirolese”, sia come redattore, sia come amministratore. In medesimi anni, Caumo avviò nel capoluogo lagarino un’agenzia delle Assicurazioni Generali: se, all’inizio, essa contava su ventisette contratti quando egli abbandonò Rovereto le Assicurazioni soprastavano nel Trentino ogni altra compagnia.

Nel 1859, Francesco Marchesani, che aveva compilato il “Messaggiere” dal 1827, affidò il foglio alla guida di Caumo: «E il primo ottobre 1859 il Messaggiere uscì per la prima volta avendo appiede il nome di A. Caumo compilatore e responsabile tipografo ed editore».

Con la nuova direzione il periodico uscì regolarmente tre volte la settimana e, dal luglio 1861 sei volte. Caumo ingrandì poi il formato e accorciò il titolo nel più semplice “Messaggiere di Rovereto”, eliminando l’appellativo tirolese: egli diresse il “Messaggiere” in tempi difficili per un italiano e per evitare di incorrere nelle censure austriache prese a propugnare l’unione del Trentino all’Italia con molta moderazione.

Si scontrò con il “Giornale di Verona” diretto da Pietro Perego che rifiutava l’ italianità del Trentino. Quando considerò il potere temporale della Chiesa ostacolo insormontabile all’unità dell’Italia entrò in conflitto con il clero e attirò le ire dei vescovi veneti che consideravano il suo foglio “d’insidioso dettato”.  Nello scontro con il potere ecclesiastico ebbe dalla sua parte il quotidiano di Perego (nell’agosto 1863  ne fu  proibita la lettura da monsignore Luigi Canossa, vescovo della città scaligera), e molti preti veneti. Le ire clericali e le condanne episcopali furono numerose.

Durante la Terza Guerra d’Indipendenza l’Austria soppresse il “Messaggere” (11 luglio 1866).

Caumo, che aveva 55 anni, si trasferì a Verona dove riprese le pubblicazioni il 5 dicembre 1866 con l’aiuto del figlio Tonino, direttore della testata dal primo gennaio 1867, e di Mario Manfroni, sostenendo, ancora una volta la causa del Trentino  italiano. Ma l’impresa durò poco, e di questa esperienza restano alcuni numeri sparsi conservati nella Biblioteca Civica di difficile consultazione. Il 29 giugno 1867 il “Messaggere” uscì per l’ultima volta: due giorni più tardi, il primo luglio, Caumo assunse la direzione dell'”Adige”.

Tutto sommato “L’Adige”, che al tempo deteneva il privilegio di pubblicare gli atti ufficiali dell’Amministrazione Provinciale veronese, teneva, in sede locale, un basso profilo politico. Per conservare i favori del prefetto Antonio Allievi si limitò, infatti, ad appoggiare i candidati più moderati del movimento liberale e a contenere in una colonnina le notizie riguardanti la città.

Coadiuvato dal figlio Tonino, da Mario Manfroni e dalla “spigliata penna” di Eugenio Checchi, corrispondente da Firenze, diede, invece, un respiro maggiore alla pubblicazione che, tramite “associazione” (l’abbonamento postale di quegli anni) penetrò pure in Istria e in Trentino. L'”Adige” divenne così particolarmente attento alle vertenze tra Italia e Austria e altresì ai grandi temi della politica europea.

Il direttore e, talvolta, Mario Manfroni compilavano giorno dopo giorno, quel riflessivo “diario”, assimilabile a un editoriale dei giorni nostri, che per tanti anni aprì il giornale. Il figlio Tonino, “(T)”, curava la politica internazionale, quella italiana e la “rivista letteraria”. Il quotidiano conservò questa rigorosa impostazione sino all’1 marzo 1870, allorquando il vecchio Caumo prese definitiva licenza dall'”Adige”.

Di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Tra il 1870 e il 1871, Antonio Caumo Junior (Rovereto 14 maggio 1844-Verona 5 dicembre 1875) subentrò al padre nella direzione dell’ “Adige”. Malato, prostrato nel fisico in conseguenza di un incidente in giovane età, era uomo di eccellente ingegno. Dopo aver frequentato la facoltà di filosofia di Monaco (anni spensierati, trascorsi nella città che amava definire l’Atene della Germania, “nei quali tutto il mondo si componeva “di sole tre cose il boccale, la dama, la sciabola“) egli dedicò i suoi sentimenti nazionali al servizio dei giornali diretti dal padre, prima il “Messaggere” e poi “L’Adige”. Dotato dello stesso stile arguto del genitore, diresse, per conto dell’editore Civelli, tra il 1871 e il 1873, l'”Alleanza”, quest’ultima fondata da lui. Nel 1872, nonostante la grande capacità di lavoro, le conseguenze dell’incidente giovanile si riacutizzarono costringendolo progressivamente ad abbandonare l’attività giornalistica. L’influenza di Antonio Caumo Junior sulla testata fu comunque notevole senza peraltro discostarsi in maniera significativa dall’impostazione precedente.

La moderazione dei due Caumo fu compensata sul piano editoriale dalla scelta di Civelli di dar vita contemporaneamente ad altre testate, come la “Gazzetta di Verona“, diretta da Osvaldo Perini (1826-1890) e la già citata “Alleanza“, quest’ultima tentò di rappresentare l’ala liberale moderata progressista.

L’imprenditore Giuseppe Civelli che pubblicava contemporaneamente numerose testate per trovare lettori nei settori diversi dell’opinione pubblica, a febbraio 1868 aveva affidato la direzione della “Gazzetta di Verona” a Osvaldo Perini, colto patriota che aveva preso parte ai moti indipendentisti. Perini, però, non aveva rispecchiato le attese dell’impresa, travalicando in più occasioni i compiti a lui affidati e provocando, con ogni probabilità, la chiusura stessa della “Gazzetta” (15 agosto 1868) e, per ragioni di concorrenza commerciale, l’apertura dell'”Alleanza”, diretta per l’appunto dal giovane Caumo, subentratogli alla guida della “Gazzetta” dall’1 agosto di quel medesimo anno.

La permanenza di Perini alla guida della “Gazzetta di Verona” fu, infatti, brevissima. Tant’è che, due mesi dopo l’uscita dal libro paga dei Civelli, il 3 settembre 1868, egli fondò il “Giornale di Verona” e, per confermare la continuità fra le due testate, riprodusse integralmente il programma originario della “Gazzetta” e più volte polemizzò col giovane Caumo.

La polemica con Caumo aveva provocato la chiusura della “Gazzetta”, la perdita di un buon lavoro al Perini e la conseguente nascita del “Giornale”.

La vertenza aveva toccato un punto delicato insinuando che il giovane Caumo non avesse osservato gli obblighi di leva trascinandosi sino al 1872, quando fu ripresa con vigore nel settembre di quello stesso anno in una corrispondenza veronese per la “Veneta Democrazia”, giornale veneziano.

Nel servizio Caumo Junior veniva definito suddito austriaco. In seguito, il periodico avrebbe pubblicato una smentita. “L’Alleanza” del 1° ottobre 1972 riprodusse una dichiarazione dell’allora sindaco Gallizzioli di Verona che approssimativamente garantiva la correttezza di Caumo Jr.

La smentita ufficiale giungeva tardiva. Non riguardava Antonio Caumo Junior, ma il fratello Giuseppe. Tutto lascia pensare che il giovane direttore dell'”Adige” avesse conservato, probabilmente per ragioni economiche legate agli interessi dell’Assicurazione, di cui la famiglia era titolare, la cittadinanza austriaca e che, solo in un secondo momento, avesse regolato ufficialmente la sua posizione. Il foglio di famiglia del censimento svoltosi nel 1871, conservato negli Archivi dell’Anagrafe di Verona, accerta la residenza veronese dei Caumo. Si tratta, comunque, di un documento successivo di qualche anno alle asserzioni del Perini.

Tuttavia, occorre tener conto che i toni aspri della polemica erano condizionati da rancori personali. Non dovrebbero sussistere dubbi sulla coerenza con cui la famiglia Caumo nel sostenere l’italianità del Trentino.

I Caumo erano fortemente contrari al potere temporale del Papa: cattolici assai poco ortodossi sostenevano con forza la causa nazionale. In ogni caso è da escludere una sostanziale divergenza di fondo tra le due testate. Tant’è vero che nel 1868, tutti e tre i direttori dei quotidiani veronesi (Caumo, Pandian, Perini) compaiono nella lista dell’Associazione Liberale e nel 1871 l'”Arena”, l'”Alleanza” e l'”Adige” daranno vita alla Lista Unitaria Liberale.  Ma il tempo dei Caumo era già finito. Antonio era morto nel 1875, il padre sarebbe scomparso nel 1883, mentre Giuseppe aveva lasciato per sempre Verona già nel 1876.

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Negli anni Settanta l'”Adige” seguì i mutamenti politici generali spostandosi, progressivamente verso la sinistra liberale di governo. Nell’agosto del 1871 Gio Batta Malesani abbandonava, dopo poco meno di un anno di lavoro, la direzione e la redazione del giornale, che rimase «fedele a quei principi di moderazione e di seria libertà che si onora di difendere».

Antonio Caumo Junior si occupò della testata principale di Casa Civelli fino probabilmente al 20 settembre 1873, data in cui abbandonò anche la direzione dell'”Alleanza”, e forse con meno assiduità e senza ufficializzare la cosa sino all’autunno.

Non è da escludere che nel periodo successivo Giuseppe Arturo Belcredi (Milano 28 luglio 1850-Genova, 27 settembre 1896), subentratogli nella direzione dell'”Alleanza”, seguisse anche “L’Adige”.  Solo più tardi, probabilmente nel 1874, è ipotizzabile che Abele Savini assumesse la guida dell'”Adige” dando finalmente stabilità alla testata.

E il 1874 è un anno importane perché in Italia con l’avvento della sinistra storica al governo il corso della stampa quotidiana cambiò.

La cronaca assunse finalmente un ruolo dominante. Anche a Verona in quegli anni, nonostante le incertezze dell’editore e l’andirivieni dei direttori, si prestò maggiore attenzione all’informazione locale.

Il 3 marzo 1870 si inaugurò il Gazzettino della città, una rubrica che fece entrare nella redazione del quotidiano alcuni intellettuali di rilievo. Primo fra tutti approdò a  “L’Adige” Ugo Capetti che, dal 1870, dopo una breve e felice esperienza nell’irridente, raffinato e umoristico “Zig Zag” (gennaio-luglio 1869), fece davvero crescere l’informazione locale. La sua penna dilagò: prima nella cronaca cittadina, poi nelle appendici, dove si occupava di musica, di pittura e di lettere.

Nello stesso periodo altri intellettuali veronesi iniziarono a collaborare con “L’Adige”: l’abate Giuliari la cui firma ricorreva con frequenza, Giuseppe Biadego futuro direttore della Biblioteca Civica e autore di recensioni bibliografiche, Riccardo Lotze che proponeva ritratti e problemi riguardanti il patrimonio artistico, Alessandro Goiran presidente della Società Alpinista e dell’Accademia,   scienziato e, dalle pagine del foglio, efficace divulgatore scientifico, Belcredi, insegnate e critico letterario,  Augusto Fasoli, futuro direttore del “Giornale   di Cagliari, l’avvocato Federico De Winkles che si occupò di letteratura e politica.

Medoro Savini, garibaldino, giornalista, scrittore e autore di appendici come F.P. Fenili, parlamentare della sinistra, provveditore agli studi della città di Verona, era il fratello più noto del direttore Abele Savini.

Il quotidiano prestava anche grande attenzione a Vittorio Betteloni, schierato allora a sinistra, riconoscendogli un ruolo autorevole nella cultura cittadina: l’editore Civelli nel 1874 pubblicò alcune sue opere poetiche.

Proprio la cultura andava occupando sempre più spazio, sprovincializzando e arricchendo il giornale, sostituendosi alle lettere mediche popolari di Pietro Donati che avevano caratterizzato le appendici nei primi anni di vita dell'”Adige”. Le frequenti escursioni di Capetti – eclettico e straordinario critico teatrale ed artistico, sempre più vera e propria anima della testata – a Milano, a Venezia, a Brescia, a Mantova, a Vicenza inaugurarono un proficuo ponte culturale tra Verona e le altre città lombardo-venete e una discreta evoluzione grafica sempre più evidente a partire dal 1878.

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Nell’ottobre del 1880 arrivò a Verona Alfredo Comandini. Nato a Faenza il 4 dicembre 1853, Comandini trascorse i primi anni della sua vita con la madre Clementina Bonini in quanto il padre, mazziniano convinto, scontava una pena in carcere per aver partecipato a una cospirazione contro lo Stato Pontificio.

Più che al mazzinianesimo paterno, la formazione politica del Comandini «si compì nel contatto con Aurelio Saffi e, soprattutto, con Eugenio Valzania, il garibaldino che con le sue aperture verso l’internazionalismo interpretava sia pure confusamente il desiderio di cambiamento delle nuove generazioni».

In ragione dei suoi rapporti con Valzania egli venne arrestato nei pressi di Rimini il 2 agosto 1874 in occasione di una riunione di gruppi repubblicani che ipotizzavano “una comune strategia elettorale”.

Liberato, si iscrisse alla facoltà romana di Giurisprudenza. Si mise in luce nel Comitato che si batteva per la realizzazione di una scultura in ricordo di Giordano Bruno. Esordì nel giornalismo con corrispondenze per “Satana” un foglio democratico di Cesena. Negli ultimi anni Settanta diresse il “Paese” di Vicenza (giugno1878-settembre 1880) e passò poi all'”Adige”.

Negli Ottanta, quando si stabilì a Verona, Comandini stava ormai allontanandosi dalle posizioni più radicali avvicinandosi ai gruppi lombardi: «Quelli più possibilisti, che volevano il sistema liberale garantito in pari misura dalle tentazioni autoritarie di un Crispi e dall’avventurismo rivoluzionario delle forze sovversive».

In seguito ebbe contatti con il Cavallotti ma dalle colonne della “Lombardia”, giornale dei Civelli che diresse dal 1883 al 1891, auspicò un partito della sinistra “pratico, non visionario“, invece di “un partito di vanagloriosi, di chiassosi, di gente che fa tutto a colpi di gran cassa“.

La sua evoluzione lo portò nel 1892 alla direzione del “Corriere della Sera” e all’elezione alla camera nel collegio di

Cesena. In rotta con Giolitti, ai suoi occhi esempio deteriore della politica italiana, Comandini ruppe nel 1894 il rapporto con il “Corriere della Sera”, di cui era rimasto un semplice corrispondente. Legato al Sonnino più che a Crispi, nel novembre del 1894 fondò “Il Corriere del Mattino”, finanziato da industriali lombardi del cotone.

Il giornale cessò le pubblicazioni e Comandini, coinvolto in una brutale campagna scandalistica, si rifugiò per un breve periodo a Londra. La morte della testata coincise con la rovina politica del Comandini. Diresse ancora “Sera” e ” Il Piccolo”, con maggiore convinzione a studi storici. Collaborò all'”Illustrazione Italiana” attraverso una rubrica “d’attualità e costume”, nascondendosi dietro lo pseudonimo di “Spectator” (che usò anche per ricordare la tragica morte di Emilio Salgari).

Scrisse diversi libri, in particolare L’Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX, giorno per giorno pubblicata a dispense dall’editore Vallardi. Politicamente si riavvicinò a Giolitti, fu interventista nella Prima Guerra Mondiale, ma rivelò di aver sempre votato per Turati. Morì a Milano il 9 luglio 1923 (per questa parte abbiamo ampiamente fatto riferimento alla scheda biografica di G. Monsagrati nel Dizionario biografico degli italiani).

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Il Comandini che approdò all'”Adige”  «non era più certamente, con le sue aperture ai settori più avanzati della Sinistra costituzionale, lo stesso degli anni giovanili», la sua opzione per una partecipazione repubblicana alle elezioni politiche «ora si svolgeva e definiva in un rifiuto dichiarato della violenza e in una accettazione della monarchia, mentre la sopravvivenza di organizzazioni settarie e di forme di lotta quali quelle promosse dagli anarchici gli aprivano come il frutto dell’immaturità politica delle masse». Comandini non si trovò in sintonia con Giuseppe Arturo Belcredi, collaboratore non politico che era stato insegnante del giovane Emilio Salgari, che passò alla corte di Giannelli ed aveva collaborato all'”Adige” pur definendolo un suo “spietato nemico politico“. Comandini assunse come cronista Carlo Ringler, animatore del Circolo Politico  Repubblicano. Un’ulteriore apertura a sinistra del quotidiano veronese.

Nel novembre dello stesso anno tra Comandini e il moderato Ruggero Giannelli, da qualche mese direttore dell'”Arena”, scoppiò una vera e propria guerra; personale piuttosto che politica. Cominciò Comandini che, riferendosi alla Marche, regione natale del Giannelli, il 25 novembre del 1880 scrisse dell’esistenza di “banditi dell’opinione pubblica di colà”. Il riferimento al direttore dell'”Arena” fu esplicito.  In una polemica fortemente politica riguardante il governo Cairoli-Depretis, Giannelli scrisse un pezzo titolato Gambe corte. Non pensò alle bugie quanto alla bassa statura del direttore dell'”Adige”. Comandini rispose a sua volta con un pezzo titolato Gambe lunghe, esplicito il riferimento all’altezza sopra la media di Giannelli, arricchito di una serie di epiteti come “asino, bestia, scrittore pagato, ecc.”. Giannelli insistette: Tutto corto? (2 dicembre 1880), Lo spirito di gamba-corta (14 dicembre 1881).

Comandini giocò sulla combinazione “Arena-anera (anatra)”. In un articolo del 6 gennaio 1881 apostrofò “L’Arena”  quale “bugiarda, ciuca, birbona, ipocondrioca“. Per inciso Giannelli, poco dopo il suo arrivo, non aveva esitato a definire alcuni esponenti delle associazioni operaie di sinistra “ciucioni” (riferimento alla capacità di costoro di assorbire generose quantità di vino è evidente), benché si fosse rimangiato il termine dopo la protesta di alcune mogli.

Nemmeno quando il Giannelli portò in tribunale il direttore dell'”Adige” finì la lite.  Il giudice condannò entrambi, ma la multa per Comandini fu più forte.

Tutto finito? Nient’affatto.

Il Comandini irritato presentò una nuova querela contro Giannelli e il gerente Gaetano Perotti per “ingiuria pubblica“. Il direttore dell'”Arena” rispose con una controquerela. La contesa terminò dopo la rimozione del Giannelli, all’inizio del 1882, dalla direzione dell'”Arena”.

Comandini, intanto, aveva cambiato l’organizzazione editoriale: il giornale, stampato di notte, usciva con una prima edizione alle sette del mattino e con una seconda alle quattro del pomeriggio. Comandini – ci soccorre Emilio Francesconi con una sua inchiesta sui giornali veronesi apparsa sulle pagine della “Ronda”, la rivista letteraria cittadina più autorevole del secondo Ottocento- «fu travolto in una battaglia non desiderata né voluta, ma dov’era obbligo restare e combattere. E anch’esso, il Comandini, combatté da valoroso, palmo a palmo, sul giornale e nelle famose aule di giustizia, ove echeggiò la sua calma ed elegante parola di romagnolo abituato al cospetto del pubblico». Poi, come già sappiamo, Comandini lasciò Verona per mete assai più ambiziose.

Sono le tre pomeridiane del 6 marzo 1898 nel parco romano della villa della contessa  Cellere quando Felice Cavallotti, il bardo della democrazia italiana, e il conte Ferruccio Macola, deputato veneto e direttore della “Gazzetta di Venezia” si sfidano a duello, il trentatreesimo per Cavallotti, spade affilate senza esclusione di colpi. Il duello era il risultato di una lunga campagna denigratoria condotta dalla “Gazzetta” contro Cavallotti che non aveva trovato soluzione amichevole. Al terzo assalto Cavallotti fu trafitto alla carotide e al palato, morendo poco dopo, secondo alcuni per errore nel ritrarre l’arma, per altri vittima di un colpo consapevole. Ai bordi del campo il giornalista Luigi Dobrilla che immediatamente inviò a Verona e in altre città un efficace resoconto del cruento scontro.

La tradizione di insediare alla direzione dell'”Adige” esponenti radicali del Risorgimento nazionale proseguì proprio con l’arrivo di Luigi Dobrilla in sostituzione di Comandini, chiamato dall’editore Civelli alla direzione della più autorevole “La Lombardia”.  Dobrilla, nato a Firenze il 3 settembre 1856 da Luigi, commerciante triestino e da Sofia de Barry, studiò prima a Trieste e poi giurisprudenza a Vienna. Laureatosi con lode a Graz nel 1877 dove però «per motivi politici rifiutò l’anello d’oro con brillanti che l’imperatore donava agli studenti migliori».

Disertò, come Guglielmo Oberdan (o Wilhem Oberdank), dal 22º reggimento “Weber” dell’esercito austriaco durante l’occupazione della Bosnia Erzegovina. Raggiunta Ancona, poco dopo l’arrivo in Italia di Oberdan, dopo modeste esperienze giornalistiche entrò nella redazione della “Ragione” diretta da Felice Cavallotti e collaborò con la “Rivista Illustrata” e l'”Illustrazione Italiana” degli editori milanesi Treves. Condannato dall’Austria, dopo l’impiccagione di Oberdan, pubblicò, nel 1883, il volume Guglielmo Oberdan: memorie di un amico cui concesse una benevole prefazione Giosuè Carducci, col quale «subì un processo per reato di stampa a Bologna e alla corte d’appello di Milano, che ordinò la confisca e la distruzione di tutte le copie». Cortesie tra cugini, Savoia e Asburgo.

Ciò spiega le ricorrenti presenze del Carducci sulle pagine dell'”Adige” e le frequentazioni veronesi. Fu chiamato dai Civelli alla Direzione dell'”Adige” dal maggio 1883 al giugno 1888 quando fu sostituito da Ruggero Gianderini. Passò poi al comando del “Diritto” di Roma e, contemporaneamente, lavorò al Ministero delle Finanze. ” Un acuto ritratto del poliglotta Luigi Dobrilla fu offerto da Francesco Giarelli, suo collega alla “Ragione”:

«La mia questione filosofico-letteraria col collega nella Ragione Luigi Dobrilla, triestino, ingegno altissimo, coltura sterminata – di lingua tedesca ed inglese assoluto padrone – e che unico, nella mia lunga carriera giornalistica, mi presentò il fenomeno rarissimo di un perfetto equilibrio fra la educazione classica e la moderna.  Luigi Dobrilla, fortissimo tra i forti, È oggi direttore della Tribuna Illustrata: ma questo è il meno. Egli è e fu tutto ciò che volle e vuole essere. È stato persino uno dei più valenti stenografi alla Galbelsberg che mai abbia incontrati e campassi cento anni non dimenticherò una formidabile sua corvee: per la quale da Milano s’arrampicò a Gardone; vi udì un discorso politico di Giuseppe Zanardelli, lo stenografò, ritornò difilato a Milano, tradusse la sua stenografia in scrittura, la passò in stamperia, ed il giorno dopo la Ragione recava testualmente per tutta Italia il verbo politico dell’illustre deputato di Iseo!».

Giarelli, storico del giornalismo, esprimeva la sua incondizionata ammirazione «all’intelletto d’uno fra i più autenticamente valorosi che abbia l’Italia giornalistica”.   Lo si descrive bello, alto, aitante, forte” e sembra che coltivasse con dedizione la sua barba «esteticamente bionda, cui, dicevasi, riconosceva parecchi splendidi successi sulle sponde incantate del Tenero» e anche sulle rive del fiume Adige.

Tant’è che la “Nuova Arena” invitava le giovani lettrici a innamorarsi una alla volta del biondo e avvenente collega.

Nella conduzione dell’Adige continuò le aperture culturali avviate da Comandini. Si dice che fu equilibrato ma è vero che le polemiche e le contese con la moderata “Arena” furono numerose, in particolare quelle che condussero al duello tra Giuseppe Biasioli, dell’“Adige”, e il giovane scrittore Emilio Salgari, dell’“Arena”. Sulle pagine del quotidiano scaligero, finché ne fu il direttore, ricordò ogni 20 dicembre il sacrificio di Oberdan. La sua carriera giornalistica fu lunga ed intensa: corrispondente da Roma per l'”Adige”, il “Corriere della Sera”, la “Lombardia”, l'”Arena”, redattore della “Tribuna” di Roma e redattore capo e direttore della “Tribuna Illustrata”.

Fu tra i fondatori della “Federazione della Stampa”, presidente del Sindacato fra corrispondenti di giornali, vicepresidente dell’Associazione della Stampa. Non dimenticò mai Trieste dove fece ritorno per qualche giorno dopo la fine delle Prima Guerra Mondiale. Morì a Roma il 21 ottobre 1921.

luigi dobrilla

di Claudio Gallo&Giuseppe Bonomi

A Verona, negli anni Ottanta dell’Ottocento, la lotta fra i vari schieramenti politici e l’intensificazione della “guerra commerciale” tra i diversi quotidiani cittadini, a essi legati, portarono a conflitti che sfociarono in vertenze e denunce, seguite dalle relative cause giudiziarie, o risolti con frequenti duelli.Il ricorso al duello per dirimere una contesa, cessò all’inizio del secolo dopo la morte nel settembre 1904 del direttore dell’“Arena” Antonio Mantovani, a seguito delle ferite riportate nello scontro con Luigi Bellini Carnesali, direttore dell’“Adige”, uno dei padri dello sport velocipedistico scaligero.

In quella situazione di grande tensione, i quotidiani liberal-monarchici (l’“Arena” e la più moderata “La Nuova Arena”) polemizzavano spesso con il radicaleggiante “L’Adige”, diretto prima da Alfredo Comandini e poi da Luigi Dobrilla. In questo clima si svolse il leggendario duello tra il giovane Emilio Salgari cronista dell’“Arena” e Giuseppe Biasioli pubblicista dell’“Adige”.

Le dispute tra la redazione dell’“Adige” e Salgari erano iniziate fin da quando Emilio Salgari aveva mosso i primi passi all’ombra di Ruggero Giannelli, direttore de “La Nuova Arena”.

Nel giugno 1884, al termine di una passeggiata di ginnastica organizzata dalla Istituzione Bentegodi, da Verona a San Pietro Incariano, si tenne un banchetto durante il quale  un giornalista dell’”Adige” inneggiò a Garibaldi e Oberdan (particolarmente caro al direttore dell’ “Adige” che aveva disertato dal medesimo reggimento austriaco nel quale era stato arruolato il patriota triestino, e fu zittito da Salgari, penna di punta de “La Nuova Arena”, non per avversità a Garibaldi, ma perché era una festa sportiva che doveva unire e non dividere.

Le rivalità tra i quotidiani veronesi furono sempre intense e, poco meno di un anno più tardi, Salgari, che nel frattempo si era trasferito all’“Arena”, tornò a scontrarsi con i redattori dell’“Adige”. Bizzarria della sorte, ancora una volta la ginnastica al centro della contesa dopo una passeggiata a Illasi, quando nella serata scoppiarono liti e intimidazioni tra i rappresentanti la società di ginnastica Margherita e Bentegodi. I giornali si schierarono su fronti, e ne fu artefice Salgari, al punto che dovette intervenire Giovanni Antonio Aymo, direttore della “Arena” per contenere la potenza visionaria e dialettica del suo giovane cronista. Le parti in causa, le due società sportive e i due quotidiani ebbero interesse a minimizzare la questione e a trovare un’intesa: l’unico fastidio era stato causato da quella cronaca, che in una città di provincia aveva mutato un battibecco animato in un caso pubblico.

In questo clima di bizze, dissapori, screzi, enfatizzati ad arte per vivacizzare le banalità della quotidianità e per assicurare la vendita dei quotidiani e dei periodici, rivestì un ruolo non indifferente Giuseppe Biasioli.

Coetaneo e concittadino di Salgari ne condivideva la passione per il giornalismo e la letteratura. Mentre Emilio Salgari lavorava nelle redazioni prima della “Nuova Arena” e poi dell’“Arena”, giornali moderati e monarchici, Giuseppe Biasioli iniziò la propria collaborazione all’“Adige”, fra il 1884 e il 1885. Una sua rubrichetta, Fatti spiccioli, era iniziata ufficialmente il 12 maggio 1885, anche se di fatto esisteva sin dai primi giorni del mese. Vi tracciava rapidi ed efficaci ritratti, brevi risposte ai lettori, commenti sulla vita cittadina e sugli avvenimenti teatrali con disincantata ironia e in genere non faceva il nome dei personaggi bersagliati dalle sue critiche mordaci (accusò Salgari di essere mozzo, anziché capitano di gran cabotaggio come andava vantandosene).

Non si sa con certezza se Biasioli fosse stato coinvolto nei precedenti accesi battibecchi fra i giornalisti dell’“Adige” e quel noto giovane irruente, dalla penna affilata quanto una lama, ma è ragionevole sospettarlo.

Furono appunto antichi e nuovi dissapori, il caso, la rivalità crescente tra l’“Arena” e l’“Adige” a portare Salgari e Biasioli a incrociare le loro lame.

Di quel duello molto è stato scritto, e si è cercato di presentare Biasioli come feroce nemico del rivale, benché pochi abbiano approfondito la conoscenza dell’avversario di Salgari.

Sei anni dopo il duello, nel 1891, dopo aver lasciato l’“Adige”, Biasioli si trasferì alla “Gazzetta di Mantova”; un anno dopo, il 10 maggio 1892, entrò nella redazione dell’“Arena”. Biasioli si trovò così a lavorare a fianco di Salgari per poco meno di un anno. È improbabile che il direttore Aymo avesse assunto il nuovo redattore senza aver prima consultato Salgari, ben rammentando quel duello del 1885. Ma certi indizi fan comprendere come dissidi e rivalità cessati, i due fossero diventati buoni colleghi e amici. Alcune testimonianze li segnalano frequentare assieme sia l’ambiente velocipedistico sia quello delle filodrammatiche.

Una foto preziosa, incastonata nella leggenda salgariana affidataci da Giuseppe Turcato, veneziano, maggior studioso salgariano del secondo Novecento, è rimasta custodita a lungo nel nostro scrittoio e solo recentemente ne abbiamo parlato pubblicamente. Essa ritrae uomini maturi e giovani, alcune signorinelle: a matita, sul retro, il nome Biasioli. Quasi tutti gli adulti raffigurati hanno un foglietto infilato nel nastro del cappello come usavano i giornalisti del tempo. Chi di loro è Biasioli? Ci aiuta la testimonianza del ciclista veronese Tullio Secondo che lo ricordava «per la sua particolare andatura, piuttosto claudicante, in quanto aveva la gamba sinistra come rattrappita». Non c’era bisogno di indicare chi fosse Biasioli: era l’unico adulto seduto. «Giuseppe Biasioli, l’uomo che sfidò a duello Emilio Salgari, aveva difficoltà a muoversi e a rimanere in piedi a lungo. Del leggendario scontro al Chievo resta ben poco. Come poteva, claudicante, competere con uno schermidore già distintosi in alcune gare tra dilettanti? Non poteva! Ciò spiega la ritrosia di Salgari a misurarsi sul campo, e soprattutto l’abbandono dell’attività agonistica dopo quel combattimento. Non un rodomonte, non uno spadaccino altezzoso, ma Salgari umanissimo, per nulla orgoglioso di quell’inutile prova».

Per chi volesse approfondire i fatti relativi al duello tra Salgari e Biasioli si segnala il saggio di Gallo e Bonomi, Giuseppe Biasioli: giornalista, duellante e amico di Salgari, “Ilcorsaronero”, n. 26, novembre 2008 (ilcorsaroneroeu@gmail.com)

Della “Gazzetta di Verona”, dell’ “Alleanza e dell’editore Civelli

di Claudio Gallo&Giuseppe Bonomi

Osvaldo Perini fu una figura importante del Risorgimento e del giornalismo veronese, e più che dell’”Adige” fece parte della attività editoriali volute dall’editore Giuseppe Civelli con il quale, in modo radicale, troncò ogni rapporto.

Accanto all’”Adige” Civelli diede vita contemporaneamente ad altre testate come la “Gazzetta di Verona” diretta da Osvaldo Perini, e “L’Alleanza” in continuazione del “Corriere Veronese”, tanto da assumete il nome come complemento del titolo e proseguendone la numerazione, con l’intento di rappresentare l’ala liberale moderata progressista.

L’imprenditore Civelli aveva costruito i suoi stabilimenti nelle varie città che in quegli anni avevano, una dopo l’altra, assunto il ruolo di Capitale d’Italia (Torino, Firenze e Roma), vincolando le proprie fortune agli sviluppi del quadro politico. L'”Adige” seguì, la stessa strada. Tuttavia, gli interessi editoriali non erano solo di natura squisitamente politica, ragione per cui Civelli pubblicava contemporaneamente numerose testate (come “La Gazzetta di Verona”, dal 13 febbraio 1868) non sempre omogenee sul piano politico, coll’intento di coprire gli orientamenti e le aspettative di settori diversi del pubblico.

Per questi motivi nel febbraio 1868 aveva affidato la direzione della “Gazzetta di Verona” a Osvaldo Perini, colto patriota che aveva preso parte ai moti indipendentisti. Tuttavia Perini non aveva rispecchiato le attese di Civelli travalicando in più occasioni i compiti a lui affidati provocando la   chiusura della “Gazzetta” (15 agosto 1868) e in seguito, per ragioni di concorrenza commerciale, l’apertura dell'”Alleanza”, diretta dal giovane Antonio Caumo, subentratogli alla guida della stessa “Gazzetta” dal primo agosto di quel medesimo anno.

La permanenza di Perini alla guida della “Gazzetta di Verona” fu, infatti, brevissima. Tant’è che due mesi dopo l’uscita dal libro paga dei Civelli, il 3 settembre 1868, egli fondò il “Giornale di Verona” e, per confermare la continuità fra le due testate, riprodusse integralmente il programma originario della “Gazzetta”.

Perini, collaboratore di Carlo Cattaneo, durante l’esilio svizzero, era entrato in rotta di collisione sia col partito liberale moderato sia con i Caumo, padre e figlio chiamati alla direzione dell’“Adige”.  La sua direzione della ” Gazzetta” era andata oltre il mandato conferitogli dall’editore dopo che questi, in accordo con l’allora prefetto Allievi, aveva strappato alla concorrente “Arena” l’appalto degli “Atti Ufficiali”. Il buon affare economico impegnava Civelli a non criticare apertamente le amministrazioni pubbliche. La polemica con Caumo Jr proseguì e i due vennero alle mani durante una rappresentazione teatrale. Fu Perini a svelare le origini della rottura con Caumo; scrisse: «Or che fa il signor Caumo figlio? Viene in Teatro, aggredisce pubblicamente il Direttore del Giornale di Verona, lo oltraggia, lo costringe ad usare delle mani per difendersi e suscita uno scandalo per obbligarlo ad incrociare un ferro con lui. Se tale fu il suo intento si è stranamente illuso. Il Direttore del Giornale di Verona è immutabile ne’ suoi propositi: egli non si incarica della riabilitazione di alcuno, rispetta le leggi, non ostenta coraggio, non confessa paura, assalito si difende e deferisce la cosa ai tribunali».

La contesa con il giovane Caumo aveva dunque provocato la chiusura della “Gazzetta”, la perdita di un buon lavoro al Perini e la conseguente nascita del “Giornale”, che fu  battagliero e molto interessante raccontando la storia di Verona nella seconda parte dell’Ottocento. La polemica invece si spense per la scomparsa di Caumo Jr nel 1875 e in ogni caso i tre maggiori quotidiani durante le elezioni del 1868, del 1871…si schierano sempre insieme nel campo liberale.

Qualche nota su Perini

“Sono sempre stato un liberale” dichiarò Osvaldo Perini al processo che nel 1884 contrappose Dario Papa, direttore dell’“Arena”, a Ruggero Giannelli, direttore dell’avversaria “La Nuova Arena”. Un’affermazione non inopportuna, poiché più volte gli fu attribuita la nomea di clericale e di conservatore. Accusa che Perini, “eroe” dimenticato del nostro Risorgimento, si porta addosso ancor oggi. Quasi che l’intrattenere, ai suoi tempi, rapporti politici e culturali con i cattolici politicamente impegnati fosse disdicevole e riprovevole.

Perini nacque a Verona il 14 dicembre 1826 da Angelo e Maria Mantica, benché vantasse di esser nativo dei “tredici comuni teutonici del veronese”. Dopo la prima gioventù irrequieta trascorsa in Lessinia, condivise gli ideali risorgimentali che contrassegnarono gli stati della penisola nella prima parte dell’Ottocento, ma raramente Perini parlò del proprio passato, al punto che non sappiamo in quale modo rimase coinvolto nel moto nazionale del 1848, tanto da dover prendere nel mese di marzo la via dell’esilio.

Fortunosamente attraverso il Piemonte e riparò in Svizzera, dove entrò in contatto con i tanti esuli lì rifugiati e con una società denominata “Tipografia Elvetica” che dal 1835, subìto il fascino esercitato dai molti patrioti italiani riparati in quel paese, andava pubblicando opere di Gioberti, Balbo, d’Azeglio… e soprattutto di Carlo Cattaneo.  Perini collaborò con la Tipografia, e sull’“Archivio Triennale” pubblicò a puntate il saggio Gli austriaci in Veneto. Le sue posizioni si avvicinarono sempre più alle idee federaliste di Cattaneo, subendone il forte fascino, e del quale, per un non breve periodo, fu stretto collaboratore. Numerose lettere e altri documenti redatti nel periodo dell’esilio in Svizzera, ne attestano il suo intenso rapporto con lui e anche con Giuseppe Ferrari, altro illustre protagonista del nostro Risorgimento di cui fu portavoce in Francia., In seguito riparò in Piemonte. Furono anni difficili e tormentati. Scrisse per vari periodici, tra i quali “La Ricreazione”, “L’Espero”…, visse di collaborazioni giornalistiche, di sussidi pubblici e dell’aiuto della moglie, Cesira Noris, di condizioni agiate, sposata il 20 ottobre 1864 a Milano, dove si era trasferito alla fine della Seconda Guerra d’Indipendenza. Si spinse poi in Francia e in Spagna, e forse a Costantinopoli. Nel 1861, a Milano pubblicò La spedizione dei Mille, rigorosa e articolata ricostruzione dell’impresa garibaldina, e la Storia delle Società Segrete, dalla quale il giovane Salgari ebbe informazioni di prima mano sulla setta dei thuggs.

Il “lunghissimo esilio” terminò con il rientro a Verona, immediatamente dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia. Inizialmente attivissimo nell’Associazione Liberale, se ne allontanò, contrariato dalla linea filogovernativa assunta, scegliendo le posizioni più indipendenti dell’Associazione Liberale Democratica, prima, poi di quella Popolare, dove in breve si consumò un’ulteriore rottura. Ben presto sembrò abbandonare l’attività politica per dirigere alcuni fogli dai quali esercitare più un’influenza morale che politica.

Accanto all’attività giornalistica Perini scrisse opere importanti come i tre volumi di Storia di Verona. Dal 1790 al 1822 (stampati nella tipografia della moglie Cesira Noris, tra il 1873 e il 1875), e alcuni romanzi storici: La castellana di Rivoli. Racconto del secolo XII (Tipografia del Giornale di Verona, 1872); Lucia della Scala. Romanzo veronese del secolo XIV (Tip. di Cesira Noris, 1876). Perini fu anche un attento traduttore, in particolare dal russo. Negli anni Ottanta un’ultima sua autorevole apparizione pubblica: fu infatti chiamato a testimoniare nella lunga vertenza pubblica tra i direttori dei due quotidiani veronesi: “Arena” e “La Nuova Arena”. Perini morì a Verona il 14 luglio 1890. Per Francesco Bresaola «Osvaldo Perini fu un dimenticato, perché avendo seguito le idee di Carlo Cattaneo, i mazziniani cercarono in tutti i modi di porlo all’oblio». Affermazione eccessiva, ma certo conserva un fondo di verità. Così Perini rispondeva a Dario Papa, che ne metteva in discussione l’indipendenza giornalistica, «Io non ho voluto mai ascrivermi a nessuna consorteria, mai vendere la mia penna […]. Si spaccia che sono pagato dai preti. Tutti sanno chi paga i miei detrattori: sfido chiunque ad indicare la persona o le persone che pagano me. Io non ho padroni e non mi comanda nessuno e non vi è al finire del mese nessuno che mi snoccioli lo stipendio».

Il duello drammatico tra Antonio Mantovani, direttore de l’“Arena” e Luigi Bellini Carnasali, direttore dell’“Adige”

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

Sin dalle origini la concorrenza tra i due grandi quotidiani fu intensa. continua e, come abbiamo già avuto modo di evidenziare, si ricorse a duelli tra i componenti delle redazioni. Sarebbe divertente la cronaca che precede e causa il drammatico duello fra Antonio Mantovani, direttore de l’“Arena” e Bellini Carnasali “direttore dell’“Adige”. Mantovani era stato accusato di “aver fatto la spia” ai danni dell’Adige per conto della Banca Cattolica Vicentina. Per la verità la polemica veniva da lontano ed era stata “aggiornata” non da Bellini Carnasali, ma dal suo sostituto Alberto Colantuoni. Bellini Carnasali ai primi di luglio, con la famiglia, aveva raggiunto Riccione per motivi di salute, intenzionato a trascorrervi la stagione estiva. Riaccesasi la polemica, egli caricò i suoi famigliari sul treno e, da buon sportivo “touriste” qual era, a cavallo della sua motocicletta, si avviò a piccole tappe verso Verona “coll’intento di divorare quanti più chilometri nel minor tempo possibile”. Ben evidente la sua passione per lo sport, e non era semplice il viaggio: il 28 luglio passò la notte a Forlì, il 29 a Bologna, il 30 a Modena, a mezzogiorno del 31 a Mantova fu costretto a fermarsi per un guasto, e per la pioggia che rendeva la strada “malagevole e pericolosa”. Per quattro giorni non lesse i giornali veronesi e solo il 31 una volta avuti tra le mani i due quotidiani accolse l’idea di un duello con Mantovani, duello, che con supponenza considerava non più di uno scontro sportivo, un ludo ginnico,

Dopo qualche altra polemica nel giro di qualche giorno si passò dall’inchiostro alle lame e il 6 agosto alle quattro del pomeriggio si tenne il duello, immaginiamo nei dintorni di Verona. I duelli raramente erano all’ultimo sangue, la solerte regia polizia vigilava. I D’Artagnan erano al bando nel Belpaese.

Al primo assalto entrambi i contendenti restarono feriti alla testa, più gravemente Mantovani, tanto da indurre i medici presenti a porre fine alla sfida. Bellini Carnasali e Mantovani si diedero la mano, lasciando da parte ogni contesa giornalistica e politica, e con dichiarazioni di stima reciproca. Sembrava che tutto dovesse finire lì.

Invece Mantovani morì a novembre, causa un’infezione provocata dalla ferita, malignarono gli amanti di cupe leggende, secondo altri per un colpo apoplettico, una emorragia celebrale forse procurata dalla ferita, o per il diabete latente che infettò il sangue. Al suo capezzale erano accorsi anche gli avversari politici e ci piace credere che l’avversario implacabile assiduo che manifestò “una cura fraternamente ammirabile” fosse proprio il direttore dell’“Adige”.

Mantovani, espressione del partito liberale moderato, era nato nel luglio 1850 a Limassol di Cipro, dove avevano trovato riparo i genitori Giacinto e Anna Marseille, dopo i moti a Venezia del 1848. A Cipro il padre operò come console di alcuni stati. Il giovane Antonio, raggiunta l’Italia proseguì gli studi a Rovigo, a Venezia e a Padova dove si laureò in legge nel 1879. Fu tentato dalla carriera consolare, lavorò nei giornali padovani e in quella città diresse la Società dei Telefoni. Nel 1893 intraprese decisamente la carriera giornalistica a Verona da collaboratore e redattore capo dell’ “Arena”.

Dopo la morte nel 1901 di Antonio Aymo lo sostituì alla direzione del quotidiano, e si distinse per la strenua difesa di Carlo Trivulzio, tenente degli alpini sospettato di essere uno dei responsabili della morte della famosa Isolina Canuti, diciannovenne. In quei giorni i due quotidiani veronesi si scontrarono e si schierarono tra chi difendeva la città, i suoi equilibri politici ed economici, la sua tradizione e la presenza dell’esercito nella fortezza cittadina e chi invece quegli  equilibri li metteva  in discussione, puntando sulla modernizzazione della città, al suo sviluppo industriale e urbanistico, allo scioglimento dei vincoli imposti dalla forte presenza dell’esercito italiano, e che avevano trovato nel  socialista, Mario Todeschini, già compagno di redazione di Emilio Salgari alla “Nuova Arena”, uno strenuo paladino.

Una sorta di investitura alla direzione dell’”Arena” si ritrova nel testamento di Antonio Aymo: «al Dott. Mantovani Antonio, mio affettuoso compagno di lavoro, per memoria modesta ma piena di cordialità, e così ai miei redattori G. Biasioli e A. Bernacconi, rispettivamente: le spille: mano d’oro con rubino, ferro di cavallo con brillantini, scatola di bottoncini di smalto e brillantini di sofrée».

Un altro passo del documento evidenzia ancora di più la stima e la fiducia verso Mantovani perché viene autorizzato a collaborare allo spoglio delle cartelle dei documenti riservati di Aymo: «Lo spoglio delle mie carte, cioè di quelle che sono contenute nei varii miei tavoli da lavoro e altrove voglio sia fatto dal solo Sinigaglia, il quale, se lo crederà, potrà farsi aiutare dal Dr. A. Mantovani, con incarico tassativo di bruciare tutti i documenti inutili e che a me fossero pervenuti per scopo di polemica, poiché non intendo che altri si possa valere dopo di me a scopo di nuocere, di carte che io non volli adoperare mai contro i miei avversari. E nessuno deve sapere di quale natura siano i documenti politici e di indole personale che si trovano nel mio scrittoio di Verona: nelle quattro scatole poste sulla etagère e nel pianterreno della cassaforte; siano tutti inesorabilmente bruciati.»

Ci rincresce di non poter utilizzare alcune lettere di Antonio Mantovani di cui ci aveva fatto omaggio Renata Broggini che avevamo aiutato nelle ricerche sull’attività giornalistica a Verona del giovane Eugenio Balzan, un altro grande del giornalismo: correttore di bozze, redattore, inviato, uomo di fiducia di Luigi Albertini, direttore amministrativo e anche proprietario di una parte della società del “Corriere dell Sera”. Esse sono conservate in un fondo presso la Biblioteca Tartarotti di Rovereto in corso di riordino.

Luigi Bellini Carnasali, il direttore dell’Adige che inventò “la rosea”, presiedette l’Hellas e divenne sindaco di Verona

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

L’avversario Luigi Bellini Carnasali, nacque Verona il 12 agosto 1879, frequentò il liceo di Desenzano e si laureò in legge a Bologna. Come l’erudito sportman veronese conte Cavazzocca Mazzanti del quale fu collaboratore, condivise il clima positivista di allora, testimoniandolo nelle attività e pratica sportiva. Amò la bicicletta, si interessò poi di motociclette e certamente “degli automobili”. Come Cavazzocca, appunto. Commerciante, proprietario dello stabilimento tipografico Aldo Manunzio, fu presidente della Società ciclistica “Cairoli”, sorta a Verona nel settembre 1894, dell’Hellas calcio, non disdegnando la scherma e proprio nelle polemiche con Mantovani se ne ricordava, maliziosamente, se non malignamente, l’aver, egli, prestato servizio militare come ufficiale e quindi avvezzo alle armi.

Direttore–proprietario de “Il Ciclista Veronese”, rivista quindicinale di sport che pubblicava gli atti ufficiali della Società “Cairoli”, annunciando nel suo primo editoriale la forza del nuovo sport di massa. A partire dal n. 7, 1 aprile 1895, il periodico ingrandiva il formato e si trasformava in “Il Ciclista Veneto” che, da quindicinale, diventava settimanale in stretta relazione con l’Unione Velocipedistica Italiana e la Federazione Ciclistica Veneta.

Non solo allargava ne “Il Ciclista Veneto” all’intera regione il suo pubblico,  ma già dal n. 2 del 15 gennaio 1895, il foglio di quattro grandi pagine assumeva un bel colore rosa, colore che qualche anno più tardi sarà fatto proprio dalla “Gazzetta dello Sport”.

Il “Ciclista Veneto” chiudeva col n. 41 del 15 dicembre 1896.  Dal 1 gennaio 1897 la rivista si trasformava ne “Il Ciclista Italiano” arricchita da saltuarie corrispondenze da Milano, Torino, Napoli, Roma, Modena, Pisa e Brescia. All’occorrenza prestava una maggior attenzione ad altre discipline agonistiche e proponeva persino un’incostante rubrichetta teatrale. Col n. 160, del 21 aprile 1898, la gloriosa testata del ciclismo veronese chiudeva i battenti, non per mancanza di lettori o per cattiva gestione economica, ma perché il suo direttore-padrone, Bellini Carnesali, sempre più impegnato in politica nell’area socialista radicale, aveva assunto la direzione dell’”Adige” tra il 1901 e il 1905.

Al quotidiano aveva collaborato assiduamente sin dalla fine Ottocento occupandosi anche di sport e ciclismo. Politicamente impegnato, consigliere comunale, divenne Sindaco di Verona con una giunta radicale e socialista dal 1907 al 1908 attivando una politica di modernizzazione della società e un’attenzione ai ceti più deboli. Convinto patriota partecipò come volontario alla Prima Guerra Mondiale con il grado di maggiore. In seguito, come molti socialisti veronesi aderì al Fascismo. Bellini Carnesali morì a Bologna il 28 settembre 1940

Ci piace riportare questo scritto che testimonia il “cuore” di chi viveva lo sport delle origini. «Ora che lo sport velocipedistico, abbattuti gli ostacoli, numerosi e di vario genere, che si accumulavano sul suo cammino, non ultimo tra i quali l’avversione ingiustificata ma fiera delle autorità cittadine, si è affermato vigorosamente anche a Verona, acquistando di giorno in giorno in tutte le diverse sfere sociali, numerosissimi proseliti, osiamo credere che la nascita di questo modesto nostro giornaletto, non riuscirà sgradita, e che tutti gli amanti del veloce cavallo d’acciaio, come ad un amico, gli faranno buon viso […] Dando la preferenza al tourisme, che per noi riassume gli scopi più morali, più igienici e più pratici ai quali il ciclismo dovrebbe tendere, tratteremo di viaggi  e di gite, avremo rubriche speciali d’igiene, di consigli pratici, di varietà,  relazioni di corse, di nuove invenzioni e di applicazioni nuove, e non tralasciando di appoggiare con tutte le nostre forze, il ciclismo femminile, il quale, benché avversato da una guerra tanto puerile quanto assurda, ha già raggruppato intorno alla sua bandiera numerose schiere di gentili  e forti signore e signorine, cui mandiamo fin d’ora il nostro plauso sincero e convinto».

Il tramonto dell’ “Adige”

di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi

I giornali nascono e muoiono, a volte hanno una storia lunga, breve altre volte. La vicenda dell’“Adige” dura sessant’anni, dal 1866 al 1926 e attraversa la storia del nostro paese: la fondazione del Regno d’Italia, le prove di un’industria nazionale nascente, le guerre africane, la Prima Guerra Mondiale, i conflitti sociali, l’avvento del Fascismo. Pesò, nel 1882, la morte di Giuseppe Civelli che aveva coltivato grandi ambizioni fondando un piccolo impero editoriale, da Milano a Roma passando per Verona, ma i cui eredi non seppero conservare e aggiornare.

Nel corso degli anni si passò da una contesa commerciale tra due fogli liberali a una contesa politica nella quale “L’Adige” si collocò in alternativa all’“Arena”.  I moti del 1898, la cosiddetta rivolta del pane, stroncata a Milano dai cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris raggiunse anche a Verona animata dall’intraprendente avvocato socialista Mario Todeschini. Sebbene con minor intensità quei moti cittadini videro i due fogli schierarsi in su fronti opposti: l’“Arena” contro i rivoltosi e in difesa del ceto conservatore mentre “L’Adige” pur non sposandone fino in fondo le istanze, soprattutto l’agitazione di piazza, si spese per comprendere le ragioni sociali del popolo poco considerato dalla classe dominante del tempo.

“L’Adige” esprimeva accorte aperture verso i rivoltosi. Entrambi liberali i giornali, ma il primo in strenua difesa della proprietà, l’altro indirizzato a un liberalismo progressista e democratico, ancora d’ispirazione radicale. “L’Adige” appoggiò le amministrazioni di sinistra d’inizio secolo, che conquistarono il comune con un’alleanza tra radicali e socialisti. Del resto Luigi Bellini Carnesali, come abbiamo avuto già modo di scrivere, era stato direttore del quotidiano dal 1901 al 1906. Politicamente impegnato, consigliere comunale, Bellini Carnesali era divenuto Sindaco di Verona con una giunta radicale e socialista dal 1907 al 1908 perseguendo una politica di modernizzazione della società. Impensabile dunque che “L’Adige” potesse avversarlo. Tuttavia “il quotidiano esprimeva una posizione riformista avversa al nascente massimalismo e, in seguito, al comunismo.

Allo scoppio della guerra di Libia, fortemente sostenuta dall’ “Arena”, non si oppose e la considerò necessaria per l’Italia all’insegna del “far presto e bene”. Così “L’Adige”, pur ritenendosi autentico erede del Risorgimento e anelando alla ricongiunzione all’Italia delle città irredente, Trento e Trieste, si spese per l’entrata in guerra contro gli imperi centrali, mentre l’altro foglio tentennava. I due quotidiani veronesi, una volta aperto il conflitto, sostennero poi il governo e le forze armate anche se non era inconsueto trovare qualche colonna bianca sulle loro pagine in stretta ottemperanza della severa censura dominante.

Dopo la fine della guerra, mentre degenerava il conflitto politico, “L’Adige” conobbe un irrimediabile declino, la qualità del foglio venne meno. Un giornale graficamente disordinato, alquanto raffazzonato, incapace di incidere sulla situazione politica locale e nazionale che sempre più spesso ricorreva ad articoli di agenzia Nel 1919 uscì al pomeriggio, a partire dalla primavera del 1920 si ridusse a due sole pagine e dal primo gennaio 1922 si trasformò in un settimanale che usciva ogni lunedì.

Il vecchio quotidiano radicale aveva concluso il suo percorso e si dimostrava persino possibilista nei confronti di Benito Mussolini. Quando il Fascismo soppresse molti giornali “L’Adige” aveva già perso ogni ragione d’essere.  Nel dopoguerra, il suo nome fu parzialmente recuperato nel “Il Nuovo Adige”, formalmente espressione del movimento liberale, legato all’”Arena” per aggirare la norma che impediva l’uscita dei quotidiani il lunedì. Ma dato che in quegli anni il calcio era giocato la domenica il foglio era ricchissimo di notizie sportive riducendo di conseguenza all’essenziale la politica e la cronaca.

Quando, sabato 31 dicembre 1921, “L’Adige” cessò le pubblicazioni solo una laconica comunicazione accompagnò la chiusura del quotidiano:

L’ADIGE

Da oggi sospende le sue
pubblicazioni quotidiane
per riprenderle al
più preso possibile


DIRETTORI

Vincenzo Puarè    1866-1867
Antonio Caumo    1867-1870
Gio Batta Malesani 1870-1871
Antonio Caumo Junior 1871-1873
Giuseppe Arturo Belcredi 1873-1874 *
Abele Savini 1874-1876
Giuseppe Casalini 1876-1878
[Emilio?] Biraghi   da Firenze, con una gestione di fatto di Carlo Nichesola e Ugo Capetti 1878- 1880**
Alfredo Comandini 1880-1883
Luigi Dobrilla 1883-1888
Ruggero Gianderini 1888- 1890
Ampelio Magni 1890-1896
[Antonio?] Libretti 1896-1899
E[nrico?] Mercatali 1899-1900
M[anfredi?] Siotto Pintor 1900-1901
Luigi Bellini Carnesali 1901-1906
Guido Tombetti 1906-1912
Aldo Ettore Kessler 1912-1913
Raffaele Gianderini 1913-1915
Garelli 1915
Guglielmo? Bonuzzi 1916-1918
Giovanni Pesce 1918-1919

* È ragionevole ritenere che Belcredi, com’era nella tradizione dell’editore, subentrato ad Antonio Caumo Junior nella direzione dell’“Alleanza”, l’altro quotidiano veronese del gruppo Civelli, assumesse anche quella dell’“Adige”.

** Dopo le dimissioni di Casalini il giornale sembra diretto a distanza da Biraghi, ma di fatto se ne occupano Carlo Nichesola e il talentuoso critico teatrale Ugo Capetti.