Per battere il cancro bisogna fare squadra. Francesco Fiorica illustra il metodo multidisciplinare dell’oncologia di oggi

L’Adige, a margine delle iniziative prese dalla Ulss9 Scaligera in occasione della giornata mondiale contro il cancro ha cercato un approfondimento con il coordinatore del dipartimento di Oncologia Clinica dell’Ulss9 Scaligera Francesco Fiorica, che è direttore di dipartimento di Oncologia clinica della Ulss9 e direttore dell’Uoc di radioterapia e medicina nucleare ed impegnato assieme ad altri medici per un’azione coordinata fra le varie discipline per dare una risposta efficiente ed efficace nella lotta ai tumori.

Nella lotta al cancro si parla sempre di multidisciplinarietà. Che cosa significa?

«Se dovessimo usare una metafora sportiva per descrivere la multidisciplinarietà in oncologia, – spiega Francesco Fiorica, coordinatore del dipartimento di Oncologia Clinica dell’Ulss9 Scaligera-  potremmo pensare a quanto sia fondamentale per un team vincente non contare solo sui colpi di genio del singolo campione di turno (che aiuterebbero ad uscire dall’impasse di qualche partita, ma non consentirebbero alla lunga di poter vincere l’intero campionato), ma sulla totalità dei componenti, che ciascuno con i propri valori, le proprie idee, le proprie peculiarità, mette a disposizione per il raggiungimento di un obiettivo comune».

Quindi: gioco di squadra nella partita contro il cancro. E facile?

«Lavorare in squadra è fondamentale per la gestione moderna ed efficace della medicina in generale e del paziente oncologico nel particolare. Diversi studi hanno dimostrato da anni e, al di là di ogni dubbio, il valore intrinseco del team multidisciplinare. Però, l’esperienza mi insegna che lavorare in gruppo ha delle grosse difficoltà.  Schopenhauer, per descriverle, fa ricorso al dilemma del porcospino: “….in una fredda giornata d’inverno un gruppo di porcospini decide di stringersi insieme per trovare calore. Ma, man mano che si avvicinano gli uni a gli altri, i porcospini cominciano a pungersi a vicenda….”

Quindi, condizione  necessaria e sufficiente affinché i team si rilevino efficaci,  è quella di evitare che manchi la fiducia, che ci siano conflitti, mancanza di impegno,  assenza di responsabilità e disattenzione per i risultati. 

Questo vale in tutti i team,  ma è maggiormente significativo in ambito medico dove risultano ancora preponderanti le prestazioni individuali. 

Un proverbio keniano  dice: ‘se vuoi andare veloce, vai da solo; se vuoi andare lontano, vai insieme ad altri’». 

Nell’Ulls9 Scaligera possiamo contare su una squadra che lotta efficacemente contro i tumori?

«Il team del dipartimento di Oncologia Clinica della Scaligera che abbiamo presentato sabato 4 febbraio a Villafranca è un’organizzazione integrata di unità operative omogenee che consta di 5 anime: Oncologia Medica, Oncologia Radioterapica, Ematologia, Medicina Nucleare e Fisica Medica. Analizzando singolarmente, ne deriva una fortissima vocazione assistenziale, gestionale e di ricerca sulla patologia oncologica.

Il dipartimento, caratterizzato dalla presenza di ottimi professionisti della salute,  deve familiarizzare sempre di più con il concetto di gruppo affine e complementare, nonché superare le visioni individualistiche del passato. “L’unione fa la forza”: si deve costituire una vera e propria squadra  che deve concorrere al perseguimento di obiettivi comuni di salute. 

L’assistenza al paziente oncologico deve essere raggiunto attraverso interazioni ed influenze 

di competenze che vengono offerte al gruppo dai singoli componenti; quando tutto ciò avviene, si supera il concetto di gruppo come somma delle parti e si acquisiscono le sembianze di un’ entità complessa, strutturata e potente».

Il paziente oncologico è un paziente particolarmente delicato. Qual è l’approccio terapeutico?

«Altro tema che abbiamo affrontato è la presa in cura dei pazienti.  Esiste uno studio su una delle riviste chiave del mondo medico, Jama (pubblicato nel 2017) che analizza il valore aggiunto del prendersi cura del paziente, oltre che curarlo. Gli autori descrivono  l’esperienza del Memorial Sloan Ketetring Cancer Center di New York dove, a parità di cure prestate per una determinata malattia metastatica, quando vi era una presa in carico con un monitoraggio costante del paziente, i dati di sopravvivenza migliorarono in modo sostanziale rispetto allo standard. Questo ci deve far riflettere parecchio sulla necessità di un’oncologia territoriale che si faccia carico dei bisogni del paziente, usando la tecnologia in essere, per offrire (quando serve) consigli per la gestione dei sintomi, suggerire eventuali farmaci di supporto, nonchè attivare degli alerts per modificare la dose o rinviare sedute di chemioterapia o radioterapia.

Infine, l’approccio umanistico, il quale deve permeare il mondo oncologico al fine di ottenere una vera “personalizzazione” dell’oncologia.  In questo caso si fa confusione tra personalizzazione del trattamento e medicina di precisione. Per medicina-oncologia  di precisione intendiamo capire le cause che fanno crescere un tumore e quindi colpire un bersaglio con una data molecola. Per personalizzazione della terapia, invece, dobbiamo portare la persona, con i suoi valori,  al centro della scena medica  e allora si scoprirà che, in una recentissima pubblicazione del gruppo del Policlinico Gemelli, la spiritualità e la resilienza sono chiavi di lettura per spiegare una “molto ” diversa prognosi nei pazienti con glioblastoma trattati con lo stesso programma terapeutico. 

Pertanto, assolutamente necessario andare verso questo tipo di approccio, di presa in carico, e di cure e di care. Concludo ricordando Patch Adams: “Se si cura una malattia, si vince o si perde; ma se si cura una persona, vi garantisco che si vince, si vince sempre, qualunque sia l’esito della terapia”».

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