Quarant’anni fa l’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa

(di Bulldog) Per farmi avere un tono di voce “massiccio” mi misero in fondo al cortile ad urlare ordini ai fucilieri del mio picchetto. Dalla finestra della fureria il comandante di compagnia controllava da lontano. Non si poteva sbagliare infatti: arrivava alla Duca il soldato che aveva sconfitto le Brigate Rosse, che rappresentava il meglio delle Forze Armate e che avrebbe presenziato alla sfilata del 4 novembre, in Bra. Il Comandante della Divisione Pastrengo dei Carabinieri.

Di Carlo Alberto Dalla Chiesa ricordo la figura imponente che scendeva dall’Alfetta blindata per ricevere gli onori, lo sguardo piantato  negli occhi dei soldati immobili sul presentat-arm e il sorrido sardonico una volta appreso che nel picchetto – impeccabile, passammo ore controllare fucili, baionette, cinturoni e anfibi – non mancavano ex detenuti di Forte Boccea rimandati al reparto a completare la naja dopo aver scontato la condanna.

Poco più di un anno dopo, guardavo scioccato le immagini della A112 del Prefetto di Palermo e quella  stessa figura imponente chinata, inutilmente, a proteggere la giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, e il figlio che portava in grembo (con loro venne assassinato anche l’agente di scorta Domenico Russo).

Sono passati quarant’anni da quel giorno e alla Storia è stata consegnata la figura di un militare integerrimo, un sabaudo tutto d’un pezzo, senza tentennamenti  sia quando combatteva gli indipendentisti siciliani della banda Giuliano, sia quando chiudeva la pagina degli anni di piombo, sia quando si ritrovava da solo nella Prefettura di una Palermo abbandonata da Roma, senza venire mai meno al dovere.

Mi sono chiesto più volte se e quanto valga la pena impegnarsi per questo Paese. E mi è sempre tornato alla mente quel servizio di PAO. E lì ho trovato sempre la risposta.

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