Aida del centenario, finalmente un’aria nuova per l’anfiteatro

(di Gianni Schicchi) La nuova Aida di Verdi del centenario, firmata da Stefano Poda (anche lui al suo centesimo allestimento), manda definitivamente in soffitta quella asfittica, datata (e sbagliata) di Zeffirelli e guarda al futuro. C’è finalmente aria di nuovo in anfiteatro con una produzione che abbatte le oleografie consunte di un Egitto iconografico, ieratico e sacrale. Ma la regia, le scene, i costumi e le luci di Poda (trentino, nato a Verona) sovvertono pure la rigidità e la solennità del dramma faraonico, per trasformarsi in uno spettacolo insolitamente spoglio, minimal, cinematografico, ma ricco di contenuti emozionali. Non vi troverete dentro le solite marce trionfali, le sfilate di guerrieri, i labari, le esibizioni dei trofei confiscati agli avversari, ma un mondo immaginifico, immerso in un fantasmagorico gioco di luci, di led, di proiezioni, di nebbie e vapori, specie nel terzo atto sulle rive del Nilo. Lo agita una moltitudine di mimi, bravissimi e ben disposti, che diventa un ulteriore protagonista della vicenda, sempre presente in scena a fare da paratoia e divisorio o a sottolineare i momenti cruciali della vicenda. 

L’impianto scenografico è poca cosa, se non una mano metallica gigantesca sul fondo che si apre e si chiude sui due infelici innamorati al termine, mentre sulle gradinate giace solo una colonna spezzata a destra, con alcuni rottami di macchine avveniristiche a sinistra e una piccola piramide al centro (ricorda quella al Louvre parigino) che accoglierà i due amanti e li farà scomparire al termine con l ‘aiuto di ascensore.

Eppure riferimenti all’antico Egitto in questa Aida ci sono, come Ra, dio del sole: un gigantesco pallone in cielo a distendere fasci di luci sulle gradinate, oppure l’occhio di Horus disegnato su molti costumi, simbolo di protezione e prosperità, del potere regale. O ancora mani mozzate, issate su lance che diventano pugni, come cerimoniale di guerra, sottolineando la potenza del sovrano e la supremazia sul nemico sconfitto, nonché qualche divinità egizia a campeggiare sui copricapo dei tanti figuranti. Non mancano neppure la tradizionale danza dei “moretti”, come la presenza di mummie bianche su apposite barelle. Tutta la scena viaggia su una grande piattaforma metallica lucida, che conserva anche misteriose botole a scomparsa per consentire agli schiavi etiopi di emergere dal suolo e strisciare davanti ai loro conquistatori.

Un’Aida tutta di cristallo, sorprendente e luccicante di oro e di argento, dove fanno grande sfoggio gli stupendi costumi ora bianchi, ora rossi per Amneris e i suoi, con Radames e Ramfis a vestirne due, luccicanti e tempestati di pietre Swarovski.

Il cast vocale è di spessore (abbiamo assistito alla seconda recita dell’opera) anche se Anna Netrebko dell’inaugurazione viene sostituito da Maria José Siri nel ruolo della protagonista. Il soprano uruguaiano (da anni cittadina veronese) è un’Aida convincente che canta con pienezza e ricchezza di cavata, giunta forse al sommo della propria parabola, efficientissima anche nel gioco scenico. Yusif Eyvazov (Radames) possiede pure l’asciuttezza del fisico in grado di renderlo un condottiero credibile. La voce è ben sostenuta in alto come compatta si rivela nei vari passaggi centrali. Olesya Petrova si conferma una Amneris dal colore fascinoso, autenticamente mezzosopranile, oggi merce molto rara. Quanto a Michele Pertusi è un Ramfis ragguardevole e austero di personalità scenica più che vocale.

Amartuvshin Enkbath (sostituisce Roman Burdenko) si conferma autorevolissimo Amonasro. Oggi il baritono mongolo (rivelatosi proprio a Verona qualche anno fa) è più di una certezza, grazie ad una disponibilità eccezionale che gli ha permesso di integrarsi con facilità nel teatro italiano.  Bene gli altri: il coreano Simon Lim (altra bella figura) come il Re, il brillante Riccardo Rados come Messaggero e Daria Rybak, la sacerdotessa.

Marco Armiliato ha diretto da par suo, con la ragguardevole esperienza ormai accumulata con 500 presenze, spesso sul podio del Metropolitan di New York. Il direttore, di origini veronesi, conosce ormai bene ognuno dei molteplici problemi connessi all’acustica areniana e alla distanza in cui è dislocato il coro rispetto all’orchestra, che impone una differenziazione negli attacchi non sempre agevole. E dunque ogni trucco per venire a capo della stupenda partitura. Non una lettura rivoluzionaria la sua, ma molto equilibrata con sorprendenti ricerche di sfumature cromatiche nel terzo atto e con un passo teatrale ovunque vigoroso, logico, con tempi collaudati da una ormai lunga tradizione. Agguerrito il coro areniano, guidato per la prima volta (una vera inaspettata sorpresa) dal grande maestro Roberto Gabbiani.

Consenti vivissimi dal pubblico, numeroso come alla prima del giorno precedente. Questa Aida ha ulteriori non disprezzabili pregi, come quello di disporre di un solo intervallo, fra il secondo ed il terzo atto, consentendo così il termine dell’opera intorno alle 24,30. E non avendo poi un corredo scenografico ingombrante, come gli altri allestimenti areniani, non va ad intasare ulteriormente gli spazi di piazza Bra. Vi pare poco?

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