Alfredo Aglietti nel commentare la brutta prestazione del Chievo, sconfitto per 2-1 nel derby veneto col Vicenza, ha parlato con sincerità. E l’onestà è sempre una grande qualità che dà lo spessore della persona, prima ancora che del tecnico. Ha ammesso che il Vicenza ha meritato la vittoria, che da parte dei suoi ragazzi ci sono stati troppi errori, molta disattenzione ed una calo di tensione. Quella tensione che è necessaria se si voglio conseguire dei traguardi che non siano la semplice salvezza che, se ottenuta in serie A, può avere un suo valore, ma in serie B diventa una accontentarsi, un “tirare a campà” che contrasta con la storia del club della Diga. Una società, quella di Luca Campedelli, che ha conquistato l’ammirazione ed il rispetto di tutti e che è stata definita addirittura “un miracolo”, riferito alla storia della squadra di un piccolo quartiere di Verona diventata grande e rimasta nell’olimpo del calcio per quasi vent’anni.
La sincerità di Aglietti merita rispetto. Ma genera preoccupazione quando dice che i suoi giocatori soffrono la responsabilità di dover raggiungere degli obiettivi. Come dire: se giocano tanto per giocare, senza particolari tensioni perché comunque vada va bene lo stesso, allora sono sereni e danno il meglio. Se però vengono caricati di responsabilità, se devono vincere a tutti i costi, se devono sostenere il confronto con delle concorrenti sul medesimo obiettivo, allora patiscono l’ansia da prestazione e non rendono.
Quella di Aglietti è una lettura che dimostra un’attenzione anche psicologica e non solo muscolare o tecnica dei suoi ragazzi. Ma è anche preoccupante, perché se dei giocatori, che sono dei professionisti, non reggessero lo stress di correre per un obiettivo, allora vorrebbe dire che hanno sbagliato mestiere. Per il semplice fatto che il raggiungimento di un obiettivo è la base del lavoro di ogni professionista. Apprezziamo la sincerità di Aglietti, ma speriamo che si sbagli.