( di Sebastiano Saglimeni)
Di questo nostro globo vilipeso in una striscia,
non quale una della nivea Svezia, aveva
appreso come disegnare vocali, consonanti
e come leggerle all’ombra di un ciliegio
attempato e svettante.
Nutrimento pieno le lustre ciliege
e del primo autunno le noci. Che sul muro
aprivano con la punta del coltello.
Bella le tue bellezze sono assai
quanto le stimo credere non puoi,
se vado a letto non riposo mai,
riposo invoco tra le braccia tue…
Intonavano al frettoloso andare
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d’una beltà muliebre con la brocca
d’acqua di roccia sulla dritta testa.
Era in una miserrima comunità
dai maleodoranti vicoli, post bellum.
Uno dei giornalieri, sanguigni e puri,
dal gelido sarmatico piano scampato,
rispondeva:
Rosa che sei stracolma di bellezze
come un ramo nel mese di maggio…
Dentro i muri delle basse e bigie
abitazioni non si estingueva l’aspro
lamento. Che, oltre i Peloritani, Zancle in macerie strazianti, ripetevano Cariddi
e Scilla dall’una all’altra costa.
Poi se ne andò chi si alfabetizzò
con un foglio arrotolato che attestava
la compiutezza di una conoscenza.
Se ne andò con in testa quel POETA
il cui sepolcro a Gela, tra le messi
di grano rigogliose, sorge ancora.
Pudore egli prova d’ essere un epigono
di versi, da millenni seminati e rievocanti
il fratello lordato di sangue, rievocanti
le mille e mille morti di pargoli innocenti.
Sì il canto alla Terra, ma con fonemi
recitanti l’odore del mare e il vocio
festoso di ragazzi nei vigneti dai grappoli
maturi. “Vai all’indietro”, mi dirai,
Giorgio, ”con i ragazzi oggi sapienti
con quel frequente aggeggio tra le mani.”
Gli muore la lingua. E non potrà mai
scrivere:
“Nutri il polmone di vino, perché la stella
folgora. Tempo asfittico tutto brucia di sete
nell’arsura. Tra il fogliame uno stridore
di cicala, il cardo è un fiore, le donne
in calore, gli uomini emaciati: le teste
e le gambe Sirio affloscia.”
Si era provato, ciononostante, a volgere
nel nostro idioma quanto Alceo, oltre
due millenni or sono, versificava a Lesbo.
La potenza del tempo di allora
rodente con i suoi lampi di calura
pure oggi come allora.
Amico, la poesia, sin dai tempi del cieco
di Chio, espande odore come la ginestra
fiorita in un dirupo.
(dal sito dell’Associazione Concetto Marchesi Gallarate)