La città di Verona appare una sola volta nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Il nome della città fa capolino nel Capitolo XVII. Siamo nel 1628, e Verona è ancora parte dei possedimenti di terra della repubblica di Venezia e ci troviamo a due anni da una nuova ondata di peste bubbonica, che distruggerà quel fragile mondo.
Il capitolo inizia con Renzo Tramaglino a Gorgonzola, in fuga da Milano, dove aveva sfiorato l’arresto e l’impiccagione da parte delle autorità spagnole:
Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star nascosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo.

Renzo era stato messo in mezzo all’assalto al Forno delle Grucce ed era diventato il ricercato numero uno dalle autorità milanesi e per questo motivo era combattuto tra il desiderio di correre e di star nascosto. Decise di mettersi in cammino verso il fiume Adda, che allora segnava il confine con lo Stato Veneziano, dove aveva un parente, Bortolo Castagneri, che lavora in una filanda da quelle parti. Trovò un barcaiolo che lo traghettò e poi, sentendosi libero, spese gli ultimi soldi che aveva in tasca per mangiare e poi lasciò il resto a una famiglia di povera gente che stava morendo di fame fuori da un’osteria.
Il pezzo dei Promessi Sposi che parla di Verona
Finalmente incontrò il suo parente, che lo aiutò, anche se gli disse che il momento non era dei migliori:
– L’ho detto io della Provvidenza! – esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino.
– Dunque, – riprese questo, – in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La città ha comprate duemila some di grano da un mercante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile. Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano.
Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s’è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s’è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campagna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattro mila staia di miglio. Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane, mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico.
Non è mai esistito un nunzio Biava a Venezia, e qui il Manzoni deve aver dismesso i panni dello storico per indossare quelli del romanziere.
Questo vale pure per quel Lorenzo Torre mandato dai bergamaschi a Venezia per impedire l’imposizione di dazi da parte di Verona e Brescia sulle granaglie sbarcate a Venezia e dirette nella bergamasca. Un segno di mai sopito campanilismo, pur essendo tutti parte dello stesso stato veneziano. Forse l’ispirazione al Manzoni gli venne leggendo qualcosa di Lorenzo Da Torre (1699-1766) un ecclesiastico, giurista, storico di origine friulana, ma venuto subito dopo il periodo storico dei Promessi Sposi.