(Antonio Fasol) Da Vasco Rossi a Tiziano Ferro a Emma Marrone, a Lady Gaga e Giorgia, fino a Leonardo Di Caprio e Gigi Buffon e altri ancora: più che i dati statistici ed epidemiologici comunque allarmanti relativi all’incidenza in forte aumento delle patologie correlate alla salute mentale, vanno in certo modo ringraziati personaggi famosi di ogni ambito, artistico, sportivo e sociale che, avendo sperimentato in prima persona tali problematiche, hanno avuto il coraggio anche mediatico di far “outing”  e contribuire anche soltanto così a combattere lo stigma sociale che da sempre contraddistingue tali patologie, spesso proprio in quanto non riconosciute come tali ma a seconda dei casi ricondotte a “esaurimenti nervosi”, indolenze, scarsa volontà di reazione quando non addirittura come conseguenze di colpe o destini familiari o sociali ineluttabili.

Ancora di più vanno ringraziati personaggi come Simone Cristicchi che attraverso canzoni (“Ti darò una rosa” vincitrice a San Remo 2007, ma anche con altri pezzi musicali e pièces teatrali successive) hanno contribuito a sensibilizzare il grande pubblico sul tema della salute mentale.

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Non dimentichiamo, poi, che la pandemia da Covid 19 ha dato il colpo di grazia all’aumento esponenziale di problematiche afferenti e correlate in qualche modo con lo spettro dei disturbi mentali, dall’insonnia prolungata alle forme di ansia e depressione agli attacchi di panico, allargando ampiamente la platea epidemiologica interessata, sia a livello di età (nessuna esclusa) sia a livello di categorie sociali e culturali, trattandosi di norma di problematiche trasversali ed in certo modo universalmente diffuse, senza esclusione di categorie.

A fronte di tale indiscutibile fenomeno in espansione la risposta del mondo sanitario è stata tendenzialmente in ritardo ed in certo modo impreparata, anche a causa una politica spesso insensibile e poco disposta ad investire, pure nel mondo occidentale dove non sempre si raggiunge la percentuale di spesa sanitaria auspicata dall’OMS (5%) superando di poco, in Italia, il 3% attualmente.

A tale criticità contribuisce da una parte la minor visibilità sociale di tali problematiche rispetto, per esempio, al peraltro più diffuso ambito della disabilità e della terza e quarta età, dall’altra appunto il persistere di uno stigma sociale, alimentato dai non pochi casi di cronaca, ancorché spesso impropriamente correlati alla malattia mentale quando invece sono pure associati a disturbi del comportamento dovuti ad emarginazione ed isolamento sociale o ancora a tratti criminali o delinquenziali di altra natura, ma tant’è: l’associazione malattia mentale-pericolosità sociale-criminalità è da sempre dura da battere!

La salute mentale dopo la legge Basaglia

A partire dalla L 180 del 1978 (la nota Legge Basaglia) la psichiatria è uscita letteralmente dai manicomi per andare a costituire, ma nel corso di molti anni, le cosiddette strutture territoriali diffuse, dai Centri di salute mentale, alle prime esperienze comunitarie, fino ai centri semiresidenziali, laboratori protetti, cooperative di lavoro, ecc., secondo una evoluzione diacronica e geografica molto discontinua e variegata, non priva di ostacoli e situazioni drammatiche, di norma sulle spalle dei familiari (sempre più riuniti in Associazioni rappresentative), quando ancora presenti e disponibili ad affrontare sfide per le quali si sono trovati del tutto impreparati.

Negli anni successivi si è sviluppata sempre più una psichiatria di comunità, con strutture territoriali residenziali, semi residenziali e domiciliari distribuite secondo criteri sempre più normati a livello istituzionale e pianificati in riferimento alla popolazione, secondo la logica poi prevista dai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) ed infine dai LEPS.

Ultimamente a tale logica universalistica ed in certo modo assistenziale si oppone – o meglio si integra –  una visione più individualizzata e mirata alla responsabilizzazione personale (la cosiddetta recovery) che vede al centro sempre più la persona utente protagonista del proprio percorso di presa di coscienza e pro-attivazione verso il percorso di cura e riabilitazione, naturalmente accompagnato dalle professionalità necessarie e circondato da un parallelo lavoro di potenziamento delle componenti territoriali (empowerment) ad opera dei servizi sanitari coadiuvati dalle realtà del Terzo Settore.

In tale prospettiva si sono di recente sviluppati i cosiddetti “Budget di salute” in alcuni territori italiani (e da poco anche in Veneto) che altro non sono che la traduzione “economica” di tale visione a 360 gradi di cura e riabilitazione di ogni singolo utente-persona, vagliandone con criteri scientifici oggettivi e validati i bisogni di salute ma anche sociali (abitazione, lavoro, affettività) per fornirgli in modo mirato ed efficace i servizi – o meglio i percorsi – da seguire con i supporti necessari predisposti da molteplici realtà territoriali: dalle cooperative sociali alle associazioni di volontariato, dalle scuole ai circoli culturali, dai gruppi sportivi alle fattorie sociali, ecc. andando così a costituire plasticamente non solo una “psichiatria di comunità” ma una “comunità per la salute”, in primis mentale.