L’ultimo atto poetico di Virgilio*

Il romanzo della guerra

(di Sebastiano Saglimbeni)  Dall’esametro 362  “Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes” che si legge nell’XI Libro dell’Eneide si può evincere  il probabile fine che Publio Virgilio Marone si  fosse prefisso quando pensò e scrisse  il suo  estremo e strenuo disegno di poesia, in nome di quel potere politico tutto incentrato in quell’imperatore che fu Augusto.  

Sono trascorsi oltre duemila anni dalla  morte di Virgilio. Un tempo così sterminato, con un susseguirsi di accadimenti sul nostro pianeta, che la mente umana, non potendo ritenere, può solo consultare, e con gli oblii di tante creazioni letterarie di vario genere, consente ancora di motivare consistenti interessi di studiosi e di traduttori nei confronti di tutta l’opera virgiliana. Di conseguenza,  una profezia  può rivalutarsi la famosa terzina dantesca della prima cantica della Divina Commedia, che apprendemmo, pure imprimendola nelle menti durante gli studi di altri tempi e che recita: 

                     O anima cortese  mantovana 
di cui  la fama  ancor nel mondo dura
e durerà quanto il mondo lontana….

Nessuna salvezza in guerra: tutti ti chiediamo pace. Maledettamente e pietosamente allora come nel nostro tempo funestato da guerre e con mille e mille voci diverse, bramose  di pace.

L’Eneide, secondo l’autore della vita virgiliana, il grammatico Elio Donato, vissuto nel IV sec. d. C., venne composta dal 29 al 19 a.C., prima, con probabilità, in prosa, dopo, verseggiata; ma va ricordato che questo dato temporale non può  ritenersi affidabile. Peraltro, Donato aveva attinto, per scrivere su Virgilio Marone, dai contributi dello storico Svetonio.

Non poco ed estenuante il processo di rimaneggiamento  all’opera che impegnò il Poeta, ma questa ugualmente  rimase  imperfetta, un “brogliaccio”, come altri l’hanno definito, sia pure  un potente libro. Virgilio ne era conscio, ma principalmente  era conscio e turbato di avere inteso e sviluppato fondamentalmente un’opera dal tema bellico, che non gli si addiceva, dopo che aveva divulgato le due felici esperienze poetiche, le Bucoliche, dal 42 al 39 e le Georgiche, dal 37 al 30. Per questo, aveva  ordinato, se gli fosse accaduto di morire improvvisamente, all’amico poeta  Vario Rufo di dare la scrittura alle fiamme.

Non fu data alle fiamme dopo la  morte del Poeta avvenuta a Brindisi il 22 settembre del 19, in seguito ad un viaggio estenuante, il ritorno dalla Grecia. Fra parentesi – va ricordato – quell’approdo  e  quella fine a Brindisi vennero ricostruiti nel  romanzo  La morte di Virgilio scritto da  Hermann Broch, vissuto tra la fine dell’Ottocento e la seconda metà del secolo scorso. Un poderoso romanzo afferrabile, inafferrabile, dagli effetti  suggestivi.

Si può ritenere che non fosse stata solo l’incompiutezza  del poema a spingere Virgilio a quel volere, ma quel tema riguardante la guerra, dove  ineluttabilmente                 

                   … caedebant pariter pariterque ruebant
victores victique…,

così come egli  si esprime, non senza amarezza, nel verso 756 del X Libro.

La guerra, dove alla pari si uccide e dove  alla pari si cade, da   vincitori  e da  vinti. Ne risentiva profondamente la tersa coscienza del Poeta, presa dal turbinoso presentimento di una fine  imminente accentuata dalla sua salute malferma.

La guerra, di cui altrove, nella chiusa del I Libro delle Georgiche aveva  come anticipato le conseguenze desolanti e devastanti, allontana  l’uomo dalla cura dei campi, l’azione più grande e nobile che sostiene l’uomo di sempre. Nessun degno onore all’arato, a causa della guerra, conseguentemente; e le ricurve falci si trasformano in rigide spade quando da una parte dichiara guerra l’Eufrate e dall’altra i Germani, quando  le città vicine, rotti i patti, si fanno guerra e quando per tutto il pianeta impazzisce l’empio Marte. Così, come in questi versi:

                                                (…)    non ullus aratro
dignus honos: squalent abductis arva colonis
et curvae rigiudum falces conflantur in ensem.      
Hinc movet Euphrates, illinc Germania bellum;
vicinae ruptis inter se  legibus urbes
arma ferunt; saevit toto  Mars impius orbe.

Versi, che contengono, se bene esaminati, l’immutabilità tragica nelle  menti mortali.

Corre un’opinione comune che il Poeta avesse voluto sviluppare  nella prima parte del suo vasto disegno  un tema riguardante i viaggi, una sorta di nuova Odissea, mentre nella seconda parte un tema  di guerra, una sorta di nuova Iliade, abbreviando i 48 testi omerici in 12 libri.  

Assai copiosi i testi scritti sulle opere di Virgilio, quelli nella nostra Italia e  quelli nelle lingue straniere, forse,  più consistenti. Qui solo un accenno, riguardante i riferimenti al Poeta, espressi da Properzio, Orazio e Ovidio, suoi contemporanei, e, molto tempo dopo, dall’autore cristiano Agostino. 

Properzio, amico di Virgilio e di Ovidio, già sapeva qualcosa circa i contenuti e lo stile del poema ed andava profetizzando:

                Indietro, Romani, indietro Greci scrittori,
una cosa sta per nascere più grande dell’Iliade.

 Orazio  ricorda (Sat. I  5, vv. 43 – 44)  la calda amicizia tra lui e il Poeta mantovano, come segue:

              O qui conplexus et gaudia quanta fuerunt!
Nil ego contulerim iucundo sanus amico.

(O quanti abbracci ci furono e  manifestazioni di gioia!   Niente, finché ragionevole, paragonerei ad un caro amico).

 Invece (Ars, vv. 53-55) osserva con una punta di freddezza ed amarezza:

                                                      … Quid autem
Cecilio Plautoque dabit Romanus, ademptum
Vergilio Varioque?

                                                             (… D’altra parte
perché i critici romani sottraggono a Virgilio e a Varo
quello che hanno concesso a Cecilio e Plauto?)

Ovidio, con certa ambizione, considerata tale da qualche studioso, si colloca sul piano di Virgilio, con questa sua considerazione (Amores, III, 15, 7-8 ):

 Mantua Vergilio Verona Catullo:
Paelignae dicatur gloria gentis ego…

(Mantova si gloria di Virgilio, Verona di Catullo, io sarò detto il vanto del popolo peligno).

Non un’ambizione, questa posizione di Ovidio, che resta, tra gli antichi autori della classicità, colui che sentì profondamente come un assillo la modernità nella sua espressione scritta e nella vita. Ne pagò le conseguenze.

Egli, che pure aveva inteso certo linguaggio per le sue elegie dalla prima scrittura virgiliana ed aveva con quel Virgilium vidi tantum espresso ancora qualche spunto positivo, non giudica più di tanto il Poeta che da Mantova era approdato in Roma, tutto riguardato dalla protezione di quella politica imperiale augustea goduta pure da Orazio.

Pertanto, Vittorio Alfieri nell’opera Del principe e delle lettere,  uscita nel 1789, lo stesso anno della Rivoluzione francese, non risparmiò a Virgilio, pur riconoscendone la grandezza, l’accusa  di servilismo nei confronti di Augusto. Certo, tutta da discutere questa caustica accusa del tragediografo.

Agostino, che  aveva studiato il latino, ripudiando il greco, si era accostato alla scrittura di Virgilio con grande amore, ad iniziare dagli anni che frequentava la scuola di grammatica a Cartagine. Nelle sue Confessioni scrive, fra l’altro, che il fascino della poesia virgiliana l’aveva costretto a  mandare a memoria gli errori di un certo Enea, dimenticando i suoi, e a gemere su Didone, morta suicida per amore, mentre egli si lasciava morire senza Dio, che era la sua vita. Si chiedeva pure se era venuto mai  Enea a Cartagine.  

 *Questa nota, fra l’altro, vuole esortare a leggere i classici. 

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