«Dobbiamo costruire una struttura comune che si in grado di reggere il confronto con Cina e Stati Uniti. Abbiamo le potenzialità per farlo: per numero di abitanti, per forza industriale, per il peso delle esportazioni. Abbiamo fatto tanto con l’Euro, manca completamente la parte politica. Ma a questo punto, ben venga un’Europa a geometria variabile, coi Paesi di guida che vadano avanti, indichino la rotta che poi gli altri partner percorreranno. Germania, Francia, Italia, Spagna, Austria, Portogallo…chi ha più voglia di stare insieme e di realizzare progetti comuni vada avanti. Non c’è più tempo da perdere». La si pensi come si vuole, ma Romano Prodi resta una delle menti italiane più lucide e sull’Europa pochi sono in grado di confrontarsi con la sua esperienza maturata in ruoli di primo piano nella Commissione europea – che guidò dal 1999 al 2004 -, nel governo nazionale – di cui fu presidente in due tornate dal 1996 al 1998 e dal 2006 al 2008 – al Consiglio Europeo, anche lì presidente, ed all’IRI, che resse per ben sette anni nella stagione delle privatizzazioni.

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La destra ed la sinistra radicale l’hanno vissuto come “il” nemico: da un lato, l’unico che riuscì a battere Silvio Berlusconi; dall’altro, l’insofferenza per la sua vena riformista. Ha vinto, ha perso, ma oggi può fischiettare tranquillo nella sua casa bolognese  “je ne regrette rien” rivendicando i risultati che ha raggiunto. Questa mattina, Romano Prodi ha dato il via alla rassegna “EurHope” dell’Università di Verona intervistato dal professor Sergio Noto e dal direttore de L’Arena, Maurizio Cattaneo. «All’inizio della mia presidenza alla Commissione – dice Prodi – mi ero posto tre obiettivi: l’allargamento a Est per impedire una nuova stagione di disastri portando pace e sviluppo economico; l’introduzione dell’Euro come moneta unica; il varo della Costituzione Europea che avrebbe reso la nostra Unione più forte perché partecipata dai suoi cittadini. Quel progetto venne battuto dal voto degli elettori francesi e quindi restò lettera morta. Ma non vuol dire che il tema non resti d’attualità.  Abbiamo fatto enormi progressi nell’economia comune – come evidenzia anche il “Next generation EU” che supera le diffidenze e l’assenza di solidarietà europea del passato -, ma siamo ancora fermi nella politica comune. Non abbiamo un esercito europeo, non abbiamo una politica estera europea, non abbiamo il voto a maggioranza ma ancora all’unanimità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: siamo immobili, non contiamo nulla. In Libia, per fare un esempio vicino a noi, comandano i russi e i turchi. La Russia ha un pil inferiore all’Italia, la Turchia non raggiunge quello dello Spagna. Eppure fanno il bello ed il cattivo tempo nel Mediterraneo».

Nel frattempo l’Europa è sentita più lontana dai suoi cittadini e il Regno Unito se n’è andato…

«Ma se guardiamo ai populismi, vediamo come questo fenomeno – legato all’immigrazione non regolata e non gestita attivamente, ed alla crisi finanziaria del 2008 governata dai banchieri e non dalla politica – sia in regressione in tutta Europa. Persino in Polonia, oggi lo Stato può insofferente a Bruxelles, il 90% dei cittadini non intende lasciare l’Unione. Perché è ancora oggi un’isola di civiltà, che garantisce diritti e welfare, che da tre generazioni non conosce guerre al suo interno. Quanto alla Gran Bretagna erano sempre rimasti con un piede dentro ed uno fuori, in virtù del loro “legame speciale” con gli Usa. Il risultato è che sono usciti, con gli USA non hanno raggiunto nulla e oggi nessun altro Paese dell’Unione immagina di uscire. Casomai altri vorrebbero entrare. Durante la mia presidenza alla Commissione, l’Unione è passata da 15 a 25 membri, ma l’unico Paese che mi ha dato problemi è stato sempre e soltanto il Regno Unito. Quindi…».

L’Europa resta però sempre un po’ matrigna verso l’Italia…«E qui non dobbiamo dirci bugie: ogni Paese “brontola” con Bruxelles quando gli fa comodo, l’ho fatto pure io da premier. Ma un conto sono le apparenze e un altro è la realtà: all’Italia ha fatto comodo stare nell’Unione  e nell’Unione nessuno ha mai pensato di agire contro l’Italia che per essere membro fondatore, per peso demografico, per ruolo economico non può che restare una delle colonne europee. Casomai tocca noi darci da fare, modificare le norme che ingessano il Paese, riformare la giustizia civile, rendere la macchina amministrativa un fattore di crescita e non un peso. E lo dobbiamo fare in fretta, altrimenti i fondi del Pnrr non li incasseremo mai e perderemo una chance unica».

Draghi: meglio al governo o al Quirinale?

«Meglio dove sceglierà di andare lui. Ha due strade davanti: governare direttamente per un anno e poi lasciare il posto a chi vincerà le elezioni del 2023; oppure, guidare indirettamente, dall’alto, esercitando i poteri di Presidente per sette anni che non sono neutri come ci si immagina. Vada dove vuole andare, quello che è importante è che rimanga nella vita politica italiana dando sostanza al cambiamento in atto e rassicurando le cancellerie europee che hanno visto sin troppi governi italiani all’opera».

EurHope proseguirà martedì 30 novembre, sulla piattaforma Zoom alle ore 12,00, con  Mario Nava, già presidente della Consob, Direttore Generale per il Sostegno alle Riforme Strutturali Commissione EU, intervisitato da Sergio Noto e Beppe Giuliano