Verrà festeggiato alla Società di Belle Arti il 17 giugno prossimo
(Angelo Paratico) Sette anni fa Amedeo Portacci, purtroppo scomparso, mi aveva fatto conoscere Alberto Zucchetta. Un artista di grande valore che tiene bottega in Corte Melone, nel centro storico di Verona. Siamo diventati amici, forse in quanto entrambi immigrati a Verona, lui da Venezia e io da Milano. Poi abbiamo collaborato pubblicando due libri con la mia casa editrice, un catalogo delle sue opere e uno studio sulla Stella di Cangrande, messa in relazione mistica con Dante Alighieri e Giotto.
Troviamo il Maestro Zucchetta nel suo studio, assieme al figlio Cristian, un esperto di arti grafiche. Sta fabbricando una croce d’oro, lavorandola con un martellino e una fiamma, prima di inserire delle pietre preziose. Mi mostra un disegno dell’oggetto da lui eseguito, per rendere chiaro come apparirà una volta terminato. Mi dice che è per una sua affezionata cliente romana.
Allora, Alberto, come saranno i prossimi sessant’anni di lavoro qui a Verona?
Saranno pieni di amore e di allegria! Mio figlio porterà avanti il nome Zucchetta sino ai 120 anni!
Non ti è ancora riuscito di trasferirti in via Zucchetta?
No, non è facile, è un vicolo vicino a piazza Simoni, un vicoletto senza sbocchi. Ma mi sarebbe piaciuto aprire proprio lì il mio laboratorio.
Ho saputo che il 17 giugno prossimo ti festeggeranno alla Società di Belle Arti, qui a Verona
Sì, vogliono festeggiare i 60 anni di attività della storica «Bottega d’arte» fondata nel 1965. Saremo alla Società di Belle Arti, alla Sala Pighi in piazza San Nicolò, alle ore 18. Sono particolarmente interessati al mio ultimo studio che avevamo pubblicato sul misterioso gioiello a forma di stella, del sec. XIV (in oro con 245 pietre preziose conservato nel Museo di Castelvecchio). Con l’aiuto di Cristian lo abbiamo riprodotto a scopo didattico, usando argento dorato e pietre preziose e lo mostreremo durante la nostra piccola presentazione, svelando un affascinante percorso scientifico e culturale appartenente al nostro passato condiviso.
Vieni considerato uno studioso di storia e simbologia medievale, e per anni sei stato un assiduo collaboratore di varie testate, scrivendo di cultura e di arti.
Sì, ho studiato e scritto, ma sempre avendo in mente la mia natura di artista pratico, a bottega, e con le mani operose. Ma ho fatto molto altro, ecco una cosa che pochi sanno, ho “riscoperto” la leggenda della ninfa del Mincio e del nodo d’amore di Valeggio, magicamente trasformato in tortellini. Credo che i valeggiani mi debbano un poco di gratitudine, perché ho certamente contribuito al loro PIL…
Per un certo tempo sei stato popolare anche nel mondo della musica leggera, se ben ricordo.
Certo producevo trofei per i vincitori del Festivalbar, che per un certo numero di anni si concludeva in Arena. Certo ricordi ce ne sono tanti, Maria Callas, Jacqueline Kennedy, Farah Diba. Tornando alla musica leggera (che poi leggera non sempre è) ricordo una volta che venne pagato un conto altissimo per Charles Aznavour al “12 Apostoli” di Giorgio Gioco. Aznavour, riconoscendomi per il “sindaco” premiatore, si dilungò in argomenti socioeconomici che pesavano in quei giorni sull’amministrazione comunale di Parigi.
Alla fine, stravolto da quella conversazione in francese che non finiva mai, dopo calorosi saluti, mi chiese di far chiamare un taxi per portarlo alla stazione dei treni. Detto fatto con la raccomandazione al tassista di passare da noi per pagare la corsa del mitico artista d’Oltralpe. Per chi conosceva Vittorio Salvetti, l’ideatore del Festivalbar, sapeva che la tavola, finito il pranzo, si trasformava in un lungo tavolo di lavoro, tanto che molte ore dopo si presentò l’esausto conducente del taxi, con il conto. Mi fece vedere un conto astronomico da farmi impallidire, tutto per una corsa fino alla stazione, esclamai! E il tassista, sorpreso, disse che: “Certo alla stazione l’ho portato sì, ma non quella di Porta Nuova come lei credeva, ma a quella di S. Maria Novella a Firenze!”.
Ricordo di aver letto qualcosa circa la storia d’amore tra Lory Del Santo ed Eric Clapton.
Sì, il compito di Lory, che allora era di una bellezza travolgente, era quello di portare a Salvetti sul palco il premio di Gloria Gaynor. Come responsabile dei riconoscimenti, e quindi delle vallette per la presenza sul palco, da parecchi minuti la stavo cercando per la cerimonia: era sparita dal backstage con il premio da consegnare alla Gaynor. Mi venne l’intuizione di bussare alla porta di tutti i camerini degli artisti: finalmente quello di Eric Clapton si aprì e…lui era lì che provava degli accordi.
Sei anche uno scultore. Hai realizzato la statua del grande pittore veronese Angelo Dall’Oca Bianca
Ah, una storia agrodolce. All’inizio l’Amministrazione Tosi, e i tre soprintendenti che si erano succeduti durante l’iter, avevano deliberato di collocarla in Piazza Erbe. Con il cambio di Amministrazione il progetto fu bloccato in attesa di individuare una locazione gradita al Comune. Il Comitato “Dall’Oca fra noi” propose allora di collocarla sotto un arco della Domus Mercatorum in piazza Erbe, vicina a quella del suo grande amico Berto Barbarani, opera dello scultore Novello Finotti. La mia statua realizzata in bronzo, con il cavalletto nell’atto di dare gli ultimi ritocchi al dipinto, (era nato il 31 di marzo 1858) era pronta per la nuova destinazione, ma anche questo progetto naufragò a causa delle trattative in corso per il cambio d’uso dello storico edificio.
Poi, l’anno scorso, dopo molto tergiversare, è stata messa nel parco cittadino, in via Selinunte, accanto alla scuola intitolata al generoso e grande pittore che lasciò tutti suoi averi al Comune di Verona per edificare il “Villaggio Angelo Dall’Oca Bianca” destinando le case ai meno fortunati di quegli anni. Non è quanto speravo, ma va bene così. Immer geradeaus come dicono i tedeschi. Il 18 maggio scorso, ricorreva l’82mo anno della morte del pittore. Con Gianni Lollis, presidente della Società di Belle Arti di Verona siamo andati a visitare l’amico Angelo il pitor de Verona e con grande meraviglia e commozione abbiamo trovato una rosa, posata da una mano anonima, sulla cassetta in bronzo dei suoi colori.
Veniamo ora a parlare di ciò che dirai il 17 giugno prossimo all’Accademia, che ti festeggerà per i tuoi 60 anni, mi pare che vogliano da te dei cenni sul tuo ultimo libro, fra l’altro super esaurito e introvabile.
L’introduzione di quel libro la scrisse, anzi la dettò, Vittorio Sgarbi durante uno spostamento in auto da Ferrara a Roma. Si tratta di una lectio magistralis più che una introduzione. Mi spiace molto per la sua depressione e per i problemi che sta attraversando, perché è davvero un uomo dalla cultura enorme. Ma, come disse Confucio: “Solo d’inverno ci si accorge che sono il pino e il cipresso gli ultimi a ingiallire”.
Zucchetta e Sgarbi
In estrema sintesi cosa dice Sgarbi?
Sgarbi parla di Giotto, che conosce molto bene e di Petrarca, legandoli a Dante, che a Verona passò i migliori anni della sua travagliata vita. La loro non era una passione solo estetica ma anche magica e numerologica. Petrarca non rinunciava a collezionare arte, non solo reperti antichi ma anche opere di contemporanei che non giustifica più solo per essere illustrazioni di libri eccelsi, anche dipinti autonomi, per esempio di Giotto, di cui lascia in testamento al patavino Francesco I da Carrara la famosa, misteriosa “Icona” mariana “la cui bellezza non è capita dai non addottrinati” (in materia religiosa), “mentre i maestri, nell’arte ne rimangono stupiti”, e Simone Martini, a cui commissiona l’ancora più famoso e misterioso ritratto di Laura. Seppure Petrarca ritenga insuperabile il modello antico, è comunque cosciente che anche la modernità di artisti come Giotto e Simone Martini possa contribuire a un certo recupero dell’eccellenza perduta, migliorando la civiltà del presente. Del resto, già Dante, altro fuoco degli interessi di Zucchetta, quando nel canto undecimo del Purgatorio allude al fatto di essere diventato il migliore poeta del suo tempo, non aveva trovato di meglio che paragonarsi a un pittore suo contemporaneo, evidentemente non più guardato con la sufficienza che gli intellettuali medievali erano soliti riservare ai “vili” artigiani. Un pittore non come gli altri, un pittore di genere nuovo, che stava facendo assurgere l’arte al rango di attività intellettuale: Giotto, naturalmente, con il quale si stava ritornando nemmeno ai tempi degli antichi romani, ma a quelli del greco Apelle che i romani poterono solo mitizzare, così come sostiene Giovanni Boccaccio nella Genealogia Deorum Gentilium. Giotto, dice ancora di Boccaccio, nella giornata sesta, novella quinta del Decameron, che è il “migliore dipintor del mondo”, ma anche “bellissimo favellatore” come si conviene a persona culturalmente preparata, che nella sua arte è stato capace di ripristinare il principio mimetico caro agli antichi, lo stesso che sarà un faro per il Rinascimento.
Bene, allora ci vedremo il giorno 17 giugno
Certo, conto sulla tua partecipazione e potranno partecipare tutti i veronesi che sono interessati alla storia e alla bellezza della loro città.