Il paradosso del 4 novembre, una vittoria di popolo che oggi l’Italia mutila, nascondendola

(di Davide Rossi e Lorenzo Salimbeni) Il 4 novembre 1918 entrò in vigore l’armistizio firmato il giorno precedente a Villa Giusti tra l’Italia e l’Austria-Ungheria con cui si compiva “l’opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri”, come aveva annunciato il 24 maggio 1915 Vittorio Emanuele III di Savoia al momento dell’entrata in quella che i contemporanei chiamarono Grande Guerra, ma che per gli italiani fu la Quarta Guerra d’Indipendenza.

Si trattò di un conflitto che coronò gli auspici dell’irredentismo, movimento politico e culturale nato nel 1877 tra i triestini, istriani e trentini convenuti a Napoli per i funerali del Senatore Paolo Emilio Imbriani, consacratosi nel 1882 con l’impiccagione del protomartire Guglielmo Oberdan (nato Wilhelm Oberdank ma intimamente italiano, differenziando in questa maniera il patriottismo italico da quello teutonico Blut und Boden dai risvolti razzisti) e perfezionatosi nella morte sul campo di battaglia del dalmata Francesco Rismondo, del triestino Carlo Stuparich, del polesano Giovanni Grion e di tanti altri giovani sudditi delle terre irredente scappati in Italia allo scoppio delle ostilità per non indossare l’uniforme asburgica, bensì fomentare l’interventismo per poi combattere nelle fila del Regio Esercito. E come loro Nazario Sauro, Damiano Chiesa, Fabio Filzi e Cesare Battisti, i quali, però, furono fatti prigionieri dagli austriaci, riconosciuti e condannati a morte in quanto disertori e traditori.

Furono in definitiva raggiunti i “confini naturali” delineati dalle Alpi e preconizzati da Dante Alighieri, includendo a nord non solo il Trentino, ma anche l’Alto Adige in maggioranza tedescofono, e cercando di occupare più terreno possibile sul fronte orientale prima dell’entrata in vigore dell’armistizio. In tal modo si cercava di limitare il consolidarsi dei poteri in mano ai consigli nazionali sloveni e croati che andavano sorgendo, auspicando l’annessione delle regioni mistilingui e multiculturali dell’ex Litorale Austriaco (Gorizia, Trieste e l’Istria) al nuovo Stato degli Slavi del Sud, che si sarebbe formato attorno al vecchio Regno di Serbia. Già durante il conflitto i reparti dell’imperialregio esercito costituiti da sloveni e croati risultarono tra i più tenaci difensori della linea dell’Isonzo (e perciò qui appositamente schierati) durante le offensive che le truppe italiane scatenarono dal giugno 1915 all’autunno 1917. Nei decenni precedenti le autorità di Vienna avevano concesso favori e riconoscimenti ai lealisti slavi che vivevano in quelle stesse terre in cui ora prendeva sempre più vigore il separatismo italiano; la guerra avrebbe soltanto reso più facile il compito di portare alle estreme conseguenze questa strategia del divide et impera.

La Marina da Guerra, che non aveva potuto misurarsi in mare aperto con la Kriegsmarine in maniera tale da riscattare la sconfitta di Lissa del 1866, aveva ottenuto prestigiosi successi grazie alle incursioni dei Mas che avevano affondato le corazzate Wien e Santo Stefano, ma voleva portare le sue basi sulle coste dell’Adriatico orientale, con particolare riferimento alla Dalmazia, anche se qui ormai la comunità italiana rappresentava la maggioranza della popolazione solamente a Zara, essendosi ridotta ai minimi termini nelle restanti località rivierasche.

Un editto dell’Imperatore Francesco Giuseppe nel 1866 aveva dato il via libera alla cancellazione della lingua e della cultura italiana in Dalmazia, in breve diventata invece la fucina del più vigoroso nazionalismo croato italofobo. Quel 4 novembre il comandante della regia flotta da guerra Paolo Thaon di Revel finse di non aver ricevuto correttamente le istruzioni armistiziali e quindi fece occupare ai suoi fanti di marina isole e tratti di costa dalmata ben oltre l’orario in cui entrò in vigore l’armistizio, dopo che la notte del 30 ottobre aveva fatto affondare da due incursori la corazzata Viribus Unitis, ormeggiata nella base navale di Pola, al fine di assicurare la conquista dal mare della piazzaforte. Alla vigilia del conflitto l’ammiraglia austro-ungarica aveva trasportato a Trieste le salme dell’erede al trono Francesco Ferdinando e della sua consorte assassinati a Sarajevo; al termine della guerra la stessa imbarcazione colava a picco, paradossalmente dopo essere entrata da poche ore a far parte della flotta di un nuovo Stato. Nella disgregazione della monarchia danubiana l’imperatore Carlo I aveva, infatti, concesso l’indipendenza e fatto dono della sua flotta da guerra al neonato Regno degli Sloveni, Croati e Serbi, che raccoglieva le province imperiali abitate in prevalenza da slavi.

A differenza della Cecoslovacchia, sorta in analoghe circostanze, tale Stato non fu riconosciuto dalle potenze dell’Intesa, poiché la diaspora nazionalista jugoslava si era già accordata a Corfù il 20 luglio 1917 con la dinasta dei Karađorđević in esilio dalla Serbia occupata da austro-ungarici e bulgari, affinché a guerra finita sorgesse il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Quest’ultimo assorbì anche il Regno del Montenegro, nonostante si trattasse di un alleato dell’Intesa (legato all’Italia dalla figura della Regina Elena) e fosse scoppiata una guerra civile tra indipendentisti e favorevoli all’annessione. Belgrado diventò così un inatteso interlocutore nella definizione del nuovo confine orientale italiano, benché tra il dicembre 1915 ed il febbraio 1916 la corte, il governo ed i resti dell’esercito serbo fossero stati portati in salvo in Puglia dalla flotta italiana, che aveva compiuto una poderosa operazione anfibia, partendo dalle coste albanesi. Si trattò di un’epica ritirata che Gabriele d’Annunzio celebrò con l’Ode alla nazione serba. Tuttavia il 24 ottobre 1918, alla luce delle successive vicende balcaniche, il Vate pubblicò sul Corriere della Sera la Preghiera di Sernaglia (località del trevigiano devastata dai combattimenti lungo il Piave) che terminava proclamando “Vittoria nostra tu non sarai mutilata”, con riferimento proprio alle terre contese tra Roma e Belgrado.

Quanto Francia, Inghilterra e la ormai sparita Russia zarista avevano promesso all’Italia il 26 aprile 1915 con il Patto di Londra era in effetti stato messo in discussione dall’inattesa implosione dell’Impero degli Asburgo, dalle simpatie raccolte dal nascente Regno degli slavi del sud e dal principio di autodeterminazione dei popoli rientrante tra i 14 punti in nome dei quali il presidente Woodrow Wilson aveva portato in guerra gli Stati Uniti. Altresì Fiume, porto della porzione ungherese dell’Impero asburgico che l’Italia non aveva richiesto, si appellò all’autodeterminazione per manifestare la propria italianità, dapprima con il suo Deputato Andrea Ossoinack al Parlamento di Budapest, quindi con il proclama redatto il 30 ottobre 1918 dal Consiglio Nazionale Italiano sorto per fronteggiare le velleità di annessione al nuovo Stato jugoslavo manifestate dalla minoranza croata della popolazione cittadina.

Nonostante queste prospettive che avrebbero contribuito a condizionare il dopoguerra italiano (spedizione di d’Annunzio a Fiume, ruolo subalterno dell’Italia negli equilibri della Conferenza di Pace, conseguenti malumori nel reducismo, instabilità governativa, fondazione dei Fasci di Combattimento e minacce rivoluzionarie del biennio rosso), quel 4 novembre il bollettino della vittoria vergato da Armando Diaz sancì la fine di oltre tre anni di sacrifici umani, materiali ed economici per il giovane Stato sabaudo. Grandi furono i meriti del generale napoletano nel riorganizzare materialmente e moralmente le truppe dopo la sconfitta di Caporetto e nell’innestare i Ragazzi del ’99 tra gli stremati reduci delle 12 battaglie dell’Isonzo, in cui il suo predecessore Luigi Cadorna dissanguò le brigate italiane all’assalto delle trincee austriache nelle pietraie carsiche. È altresì necessario sottolineare come tali tattiche, che oggi sembrano folli, venivano messe in pratica su tutti i fronti da tutti i contendenti. D’altro canto, il Generalissimo piemontese aveva predisposto gli arroccamenti difensivi sul Monte Grappa e sul Piave, dopo il rischio corso nella primavera 1916 (Strafexpedition o Battaglia degli Altipiani). Ben consapevole di tale situazione, Vittorio Emanuele III al convegno di Peschiera tenne testa agli alleati dell’Intesa che intendevano vincolare l’invio di rinforzi sul fronte italiano dopo Caporetto al conseguimento di una linea difensiva più arretrata di quella del Piave. Così quel 4 novembre sancì anche la vittoria di Sciaboletta che, dopo aver sanato con la conquista di Tripolitania e Cirenaica la disfatta coloniale di Adua patita dal padre Umberto I, adesso suggellava gli sforzi per l’Unità d’Italia compiuti dal nonno Vittorio Emanuele II.

Quel giorno vinsero gli italiani dell’Adriatico orientale che, dopo aver contribuito con volontari a tutte le guerre del Risorgimento, conseguivano finalmente l’annessione all’Italia, pur di fronte alla consapevolezza che le fortune portuali di Trieste e quindi del suo hinterland erano legate a doppio filo al retroterra mitteleuropeo, e non allo stivale. 4 novembre 1918 di vittoria per i sindacalisti rivoluzionari, i repubblicani, i garibaldini che andarono a combattere volontari in Francia contro i tedeschi già nel 1914 ed i mazziniani che, seguendo l’esempio di Garibaldi e Mazzini, avevano deposto le pregiudiziali monarchiche per unire le forze verso un obiettivo condiviso, dopo aver minacciato durante le Radiose giornate di maggio “O guerra o repubblica”. Fu una guerra totale che coinvolse anche le donne: vinsero pure le operaie che presero il posto degli uomini nelle fabbriche e nei trasporti, delle crocerossine e delle portatrici carniche, le montanare che sfidavano il fuoco dei cecchini per portare a spalla pesanti gerle di viveri e di munizioni agli alpini in prima linea.

Il 4 novembre 1918 vinse l’Italia intera, che fu finalmente Unita e che paradossalmente oggi sembra quasi vergognarsi di celebrare questa sua vittoria.

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail