Caccia. L’approfondimento dopo la bocciatura del Piano Faunistico Venatorio della Regione Veneto

Dopo la bocciatura del Piano Faunistico Venatorio della Regione Veneto da parte della Corte Costituzionale, L’Adige aveva pubblicato l’intervento di uno dei massimi esperti di caccia, Michelangelo Federici di Gorzone, che ne ha illustrato le motivazioni, che peraltro aveva previsto e preannunciato. 

La caccia è un argomento divisivo. La maggior parte degli italiani è contraria. Ciò nondimeno è interessante conoscere sul tema il parere dei maggiori esperti che, basta leggere poche righe, si distingue nettamente dalle posizioni di quelli che della caccia ne hanno fatto un business o un modo per prendere voti.

Come approfondimento abbiamo incontrato il dott. Renato Semenzato, biologo, membro del direttivo di Accademia Veneta, autore di progetti faunistici, pubblicazioni, valutazioni impatto ambientale. Collabora con diverse Regioni e Provincie, ha tenuto più di 100 corsi di selezione, è docente autorizzato Ispra. E’ docente di biologia, etologia, gestione faunistica, ecologia e dinamica delle specie.

La bocciatura da parte della Corte Costituzionale del Piano Faunistico Venatorio della Regione Veneto pone il problema del modello di gestione della caccia sul territorio. Qual è quello che lei propone?

«Il modello di gestione venatoria conservativa proposto dall’Accademia Veneta di Gestione Faunistica, fa riferimento al cosiddetto “modello di gestione mitteleuropeo”. Sopravvissuto al crollo della monarchia asburgica,- spiega Semenzato- ha permesso e permette la crescita e l’espansione in ampie aree degli ungulati selvatici.  Su queste fondamenta si è applicata una strategia gestionale che fa riferimento alle dottrine di Ferdinand von Raesfeld e a quelle di Aldo Leopold, ispiratore della moderna biologia di conservazione, in una sintesi tra Das Rehwild e Game Management».

Un modello orientato alla conservazione delle specie, e non alla loro distruzione per avere il consenso della lobby dei cacciatori…

«In questo contesto l’attività venatoria ha rappresentato e rappresenta un elemento favorevole allo sviluppo delle popolazioni di fauna selvatica, influenzandone positivamente la crescita». 

Può fare un esempio per noi profani in modo che possiamo capire meglio?

«Il Capriolo, per esempio, è tra i Cervidi la specie a maggiore diffusione e occupa quasi tutte le tipologie ambientali. L’ambiente ottimale per la specie si individua in pianura, collina e media montagna, nelle zone di ecotono o nei boschi di latifoglie ricchi di radure. La capacità di colonizzazione del Capriolo è tale da essere osservato nelle aree agricole intensamente coltivate fino alle foreste pure di conifere.

Nei brucatori, qual è il Capriolo, -continua Semenzatola precocità della prima riproduzione assieme alla capacità di produrre un numero elevato di piccoli determina tempi generazionali più rapidi e pertanto questa specie meglio sopporta la pressione venatoria.

Il capriolo si configura come una specie ubiquitaria e relativamente adattabile ai nuovi ambienti agricoli e boschivi creati dall’uomo. Infatti lo possiamo trovare frequentemente in cedui abbandonati e in piccoli boschetti a “macchia di leopardo”, alternati a coltivi e prati tipici della collina e montagna veronese.

La specie mantiene comunque uno stretto legame con il bosco, anche in aree dove la copertura arborea è scarsa perché, nonostante la quantità di offerta trofica presente nelle aree aperte, queste non rispondono alle esigenze di protezione degli animali, che infatti svolgono le fasi più importanti del loro ciclo biologico proprio in bosco.

Il modello di uso dello spazio del capriolo con home range variabili dai 20 ai 50 ha, permettono il raggiungimento di densità di popolazioni importanti». 

Quindi l’aver voluto ridurre la “Zona Alpi” nel Piano Faunistico Venatorio della Regione Veneto bocciato, oltre che andare contro la Costituzione andava contro la conservazione di determinate specie di animali?

«Ai fini di una gestione consapevole e responsabile – conclude Semenzato–  è certamente importante il mantenimento e un ampliamento del territorio della cosiddetta “Zona Alpi”, per poter esercitare una attività di gestione consona alla specie che non destrutturi le popolazioni e ne rispetti la biologia e la modalità conservativa di prelievo». 

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