Fake o non fake Italy, qualcosa non torna al Brennero…

(di Bulldog) Premetto: vedere i camion bloccati davanti alla protesta mi fa girare i santissimi. Anche quando la protesta è legittima. E se vedo uno che distrugge dei prodotti agricoli mi incazzo ancora di più. Perché se ci sono dei controlli da fare tocca allo Stato farli e deve farli sempre. Al Brennero come al supermercato. E nessuno può permettersi il lusso di distruggere del cibo – in verità, questo non è accaduto al Brennero, ma in Francia e in Polonia pochi mesi fa – quando ci sono tantissime persone che quel cibo non riescono a toccarlo.

La lotta all’italian sounding è legittima e sacrosanta. La lotta alla contraffazione, al dumping sociale dei produttori esteri, extra-Unione, è un dovere. Ma bisogna che ci chiariamo un po’. I dati di Coldiretti – impegnata nella grande mobilitazione “nofakeitaly” – raccontano una parte della verità, quella – legittima – dei produttori associati al sindacato guidato da Ettore Prandini.

Ma non è l’unica verità. I numeri non sono in discussione. Ma la risposta non può essere l’autarchia. O un mercato chiuso.  

Prendiamo dal comunicato stampa di Coldiretti: “Nel giro degli ultimi dieci anni le importazioni di cibo straniero sono aumentate del 60% raggiungendo il valore record di 65 miliardi di euro.   Il nostro Paese è arrivato a produrre appena il 36% del grano tenero che le serve, il 53% del mais, il 51% della carne bovina, il 56% del grano duro per la pasta, il 73% dell’orzo, il 63% della carne di maiale e i salumi, il 49% della carne di capra e pecora mentre per latte e formaggi si arriva all’84% di autoapprovvigionamento.

Nel 2023 hanno attraversato le frontiere oltre 5 miliardi di chili di prodotti ortofrutticoli con un aumento del 14% rispetto all’anno precedente. Uno dei prodotti simbolo dell’invasione sono le patate: escludendo quella per la semina, ne sono arrivati 797 milioni di chili, in crescita del 39% rispetto a dodici mesi prima. A questi ne vanno aggiunti altri 288 milioni di chili congelate e 74 milioni di chili cotte e congelate, oltre a 10 milioni di chili di patatine già pronte tipo quelle fritte dei sacchetti.

Ammontano poi a 251 milioni di chili le importazioni di piselli tra freschi e secchi (+20%), mentre quelle di fagioli sono pari a 176 milioni di chili (+9%), e di lattuga ne sono arrivati 126 milioni di chili (+5%). Di pere ne sono arrivati 127 milioni di chili (+15%) ma è boom soprattutto per gli arrivi di pesche e nettarine balzate a 108 milioni di chili (+74%)”.

E ancora: “Nel 2023 abbiamo importato 3,06 miliardi di chili di grano duro per la pasta, in crescita del 66% rispetto all’anno precedente, mentre gli arrivi di grano tenero con cui fare pane e biscotti sono stati di 4,88 miliardi di chili, l’8% in più rispetto a dodici mesi prima. Le importazioni di latte sfuso sono state pari a 884 milioni di kg, in aumento del 47% rispetto al 2022, ai quali vanno aggiunti altri 302 milioni di kg di confezionato. Ma ci sono anche 593 milioni di chili di formaggi e latticini arrivati nel 2023 (+11%).

Tra le carni, le importazioni maggiori hanno riguardato quelle di maiale, pari a 992 milioni di chili (+4%), davanti alle bovine con 375 milioni di chili (+5%) mentre quelle di pecora ammontano a 29 milioni di chili (+14%). Per il pesce, ne abbiamo importato 793 milioni di chili, sostanzialmente sui livelli del 2022”.

Export italiano a 64 miliardi nel 2023

E allora? L’Italia importa, ma l’Italia anche esporta. Le cifre dell’export di settore  parlano di 64 miliardi. Quindi lo sbilancio non  appare così drammatico. E i soldi si “pesano” non si contano soltanto: se le vendite all’estero venissero bloccate  per impedire in Italia acquisti di prodotti agricoli esteri, sarebbe lo stesso in termini di valore aggiunto per le imprese e per il sistema Paese? No, non sarebbe lo stesso. Un consumatore italiano non ha il potere d’acquisto di un omologo negli USA o in Germania.

Se produciamo tanta pasta che vendiamo nel mondo con quale grano la facciamo? Dove stanno gli agricoltori per farlo? Chi andrebbe a mietere il grano? Se gli italiani utilizzano le patate precotte e tagliate in misura maggiore della produzione italiana che facciamo? Dotiamo tutti di un pelapatate nuovo?

C’è l’italian sounding? Certamente. Ma non potrebbe essere altrimenti. E’ il privilegio del leader, si viene copiati. E non dimentichiamo che nel mondo c’è un’altra Italia per dimensioni – 60 milioni di persone – che sono eredi dei contadini veneti, piemontesi, siciliani, campani, abruzzesi che negli ultimi centoventi anni sono emigrati all’estero. E all’estero hanno riprodotto quello che sapevano fare: il parmigiano reggiano, il vino, la pasta, l’olio…Non saranno prodotti DOP,  per carità,  ma vogliamo dire che il Prosecco brasiliano è la contraffazione di quello trevigiano quando trevigiani (d’origine) sono i viticoltori, quando hanno comprato le tecnologie italiane per la spumantizzazione, quando hanno studiato enologia a Conegliano?

Vogliamo bloccarli alle frontiere? Con quale giustificazione? Xè più veneti de noialtri … Come pensate sia nato l’export agroalimentare italiano se non con gli acquisti dei nostri confratelli oltremare? Sicuri che non abbiamo debiti con loro?

E l’olio tunisino? Ulivi piantati da coltivatori italiani producono un olio che è una contraffazione?

L’italian sounding di 60 milioni di discendenti italiani nel mondo

Se Coldiretti blocca un carico di uva indiana destinata a venir tramutata in uva italiana nemmeno fossimo a Cana è giustissimo bloccarla. Non rispetta nemmeno i nostri standard sanitari. Ma l’uva raccolta da immigrati irregolari che vivono in condizioni igieniche spaventose invece quelli standard li rispettano?

Se la Spagna ci invade con le sue arance – e le loro Navel sono oggettivamente peggiori di quelle siciliane e calabresi – la ragione non sta  soltanto in un mercato cinico e  baro, ma anche e forse soprattutto nella nostra storica incapacità di organizzarci.

E a questo riguardo, gli agricoltori italiani non sono vittime del sistema economico e della politica. Sono parte importante tanto dell’uno che dell’altra. Sono un pezzo importante della classe dirigente di questo Paese e dell’Unione Europea. Sono stati sempre al governo, dal 1948 in poi. Hanno avuto sempre le porte aperte, hanno determinato anche loro le trattative europee: dal latte al vino.  Sorprese zero da questo punto di vista: le associazioni dei coltivatori non si sono trovate davanti a giochi fatti, ma di quei giochi erano parte attiva.

E allora? Allora un Paese esportatore deve usare la clava della protesta cum grano salis. Deve far valere il valore della salubrità, dell’efficienza economica, e deve spiegare che se i suoi costi sono maggiori è perché produce più bio, meglio e con più tutele per ambiente e persone. Perché investe nelle rinnovabili, in un nuovo modello di agricoltura che è per sua natura più costoso, ma alla lunga ci farà guadagnare di più come sistema Italia.

Meglio agricoltori in Tunisia o spacciatori in Italia?

E deve saper aprire i cordoni della borsa quando serve. Ha senso bloccare l’olio tunisino, o i pomodori marocchini, quando l’alternativa è ritrovarci qui da noi quei coltivatori in cerca di un futuro? Non è meglio una partnership da noi guidata? Non è questo il senso del “piano Mattei” che un governo oggettivamente amico di Coldiretti sta portando avanti?

Noi non possiamo reggere un blocco alle nostre esportazioni. Noi dipendiamo dai mercati esteri. Noi non dobbiamo protestare, dobbiamo guidare i mercati e non subirli sempre. Questo dovrebbe chiedere un sindacato – tutti i sindacati – al loro governo. Le battaglie di retroguardia si chiamano Roncisvalle e sappiamo bene com’è finita…

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